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del Cardinale Giorgio Marengo IMC*
Pubblichiamo l’intervento pronunciato dal Cardinale Giorgio Marengo, Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar, in occasione del Convegno Internazionale Missionario “La Missio ad Gentes oggi: verso nuovi orizzonti”.
Promosso dal Dicastero per l’Evangelizzazione (Sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari) e dalle Pontificie Opere Missionarie, il Convegno si è svolto nel pomeriggio di sabato 4 ottobre presso l’Aula Magna Pontificia Università Urbaniana, nella cornice del Giubileo del Mondo missionario e dei migranti.
Roma (Agenzia Fides) - Ringrazio gli organizzatori di questo pregevole Convegno Internazionale Missionario, per avermi invitato e per offrirmi la possibilità di condividere alcune riflessioni su una tematica quanto mai importante nell’oggi della Chiesa. “Sussurrare il Vangelo” dice la profondità, la complessità e la bellezza della missione, soprattutto quella di primo annuncio. Propongo dunque di partire proprio da questa espressione per sviluppare insieme a voi una breve riflessione missionaria.
Era il 1998: durante i lavori del Sinodo Speciale per l’Asia, l’Arcivescovo di Guwahati, Mons. Thomas Menamparampil, SDB, condivide con i Padri Sinodali questa espressione. Volendo riassumere la missione della Chiesa in Asia, il prelato indiano parla di “Whispering the Gospel to the Soul of Asia”, ossia “Sussurrare il Vangelo all’anima dell’Asia”. Dopo il suo intervento, nell’aula e nei corridoi, molti gli si avvicinano per congratularsi di questa sua definizione. Da indiano ed esperto di missione in Asia, Mons. Menamparampil aveva saputo sintetizzare l’essenziale della missione e la sua poliedricità in un’immagine altamente evocativa.
Il cuore della missione è certamente il Vangelo. Scontato dirlo, ma meglio eccedere che omettere: la missione della Chiesa è sempre e dovunque offrire ad ogni persona la possibilità di conoscere Cristo e il suo Vangelo. Questo tesoro è destinato al cuore, alla parte più profonda e misteriosa della persona. Ecco perché si sussurra: è un’azione delicata, richiede confidenza, presuppone un rapporto di amicizia sincera. Ritornano in mente le parole di San Paolo VI, che al n. 20 dell’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi ricordava: “Occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione Gaudium et Spes, partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio”.
Sussurrare il Vangelo nasce dal cuore ed è rivolto al cuore. Maria Maddalena corre a informare i discepoli del sepolcro vuoto e dell’incontro con il Risorto; il cuore ardente dei discepoli di Emmaus desidera condividere la gioia del Viandante che ha diradato le tenebre della loro delusione. C’è dunque un annuncio ad intra che anima la prima comunità credente e che continua a sostenerla dovunque e sempre, fino ai nostri giorni; ma nasce da subito anche un annuncio ad extra, proprio come il Risorto aveva chiesto agli undici: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15, cfr. Mt 28, 19-20). San Paolo non può celare il “mistero nascosto nei secoli” e lo annuncia alla comunità di Colossi, composta in prevalenza da gentili.
Nel contesto del Giubileo del Mondo Missionario è importante ritornare al dono di grazia e alla responsabilità che ne consegue di annunciare il Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questo è lo specifico della cosiddetta missio ad gentes, che continua ad avere anche oggi la sua validità e necessità.
È bello che ce lo diciamo qui, presso la Pontificia Università Urbaniana, erede dell’antico Collegio Urbano fondato nel 1627 proprio per dare sostanza a quell’impegno formativo e di ricerca scientifica che la missione esige. Non è superfluo ricordare in questa sede che la Sacra Congregazione De Propaganda Fide era nata proprio per riportare nel cuore della Chiesa il nobile compito di annunciare il Vangelo laddove non era ancora conosciuto, dopo che se ne erano fatte carico – non senza pregi e meriti, ma anche con inevitabili limiti e debolezze – le potenze coloniali dell’epoca. Se allora l’esigenza era stata quella di “purificare” l’impegno missionario, riportandolo sotto l’egida della Sede Apostolica, sembra che oggi si tratti di riconfermare la validità dello stesso impegno specifico, talvolta messo in discussione, quasi non avesse più una sua ragion d’essere nel mondo globalizzato e sempre più interconnesso. Questa sottile ambiguità era già stata messa in luce da San Giovanni Paolo II, che nel 1990 aveva ritenuto di dover ribadire la “permanente validità del mandato missionario” con la Lettera Enciclica Redemptoris Missio. S’intravede così una linea magisteriale che parte dalla costituzione conciliare Ad Gentes, passa attraverso la già citata Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi di San Paolo VI e viene confermata da San Giovanni Paolo II con l’Enciclica Redemptoris Missio; essa si precisa ulteriormente nei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, soprattutto la Dichiarazione Dominus Jesus del 2000 (a firma dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger) e la Nota Dottrinale su alcuni aspetti dell’Evangelizzazione del 2007; l’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Verbum Domini di Papa Benedetto XVI (2010) contiene un chiaro incoraggiamento all’importanza della missione ad gentes, sottolineandone l’importanza essenziale; infine, l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco giunge come conferma e insieme rilancio dell’immutata dedizione della Chiesa all’annuncio gioioso del Vangelo, rimesso al centro della vita e della missione della Chiesa, anche nella sua organizzazione centrale, come ribadito nella Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium (2022).
D’altronde, questa è l’esperienza della Chiesa fin dai suoi primi passi. San Paolo non riusciva a comprendere la sua vocazione al di fuori dell’annuncio: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16). Soprattutto grazie a lui, il Collegio degli Apostoli negli stessi anni prese sempre maggior consapevolezza che il mandato ricevuto dal Risorto riguardava sì il popolo dell’Antica Alleanza, ma anche le Genti che provenivano da tradizioni religiose distinte e che rappresentavano la maggioranza del mondo di allora. Immedesimandoci per un istante nelle prime generazioni cristiane, appena dopo la Pentecoste, ci ritroveremmo in un mondo che era tutto non-cristiano (e in massima parte anche non-giudaico); ed era proprio ad esso che i primi credenti, guidati dagli Apostoli, si sentivano inviati per condividere la gioia del Vangelo. La norma era interfacciarsi con chi non conosceva affatto Gesù Cristo e da lì nasceva e si radicava la convinzione amorosa di volerlo rendere noto.
Riproporre oggi la missione ad gentes vuol dire ripartire da qui, con amore e delicatezza, desiderando sussurrare il Vangelo al cuore di ogni persona e di tutte le culture. Questa tensione amorosa orientata alla comunicazione del Vangelo innesca un sincero appassionarsi alle culture e un rigoroso impegno di decifrarle, cogliendone i tratti più essenziali. Con il passare dei secoli, ci eravamo abituati a un contesto di conoscenza diffusa del Cristianesimo; duemila anni di missione non sono poca cosa! Eppure, anche se in misura limitata, oggi continuano ad esserci realtà in cui Cristo e il Suo Vangelo non sono ancora conosciuti e le possibilità concrete di potervisi confrontare sono rare, per mancanza di testimoni sul posto. È in queste realtà che si vive primariamente la missione ad gentes. Ecco, dunque, un modo di descriverla, secondo un criterio ecclesiologico: esserci dove la Chiesa visibile non è ancora presente o lo è in maniera incompleta. È importante prenderne atto e riscoprire la bellezza di questa fase iniziale di incontro del Vangelo con gruppi umani e culture che per varie ragioni non vi si erano ancora confrontati. Questo aiuta a mantenere la freschezza del primo annuncio, capace di innescare un processo a catena che vivifica la trasmissione della fede in tutta la Chiesa, anche dove essa è già costituita. Le esperienze di Chiese particolari ancora in fase di inserimento, caratterizzate da una condizione minoritaria rispetto alle società umane in cui si trovano, hanno questo di bello: pur nei loro limiti evidenti, ricordano alla Chiesa universale l’essenziale della sua identità profonda, cioè l’esistere per l’annuncio del Regno di Dio, non per se stessa.
La testimonianza di credenti delle prime generazioni ha un qualcosa di unico e di contagioso, come notano giornalisti e scrittori che ne raccolgono le voci. Nel caso della Mongolia, è abbastanza emblematico il successo editoriale riscosso recentemente da Javier Cercas, con il suo libro “Il folle di Dio alla fine del mondo”. Un reportage ancora più direttamente legato alla testimonianza dei primi cattolici in Mongolia è quello curato da Marie-Lucile Kubacki De Guitaut, nel suo libro “Jésus en Mongolie”.
Otgongerel Lucia è un esempio luminoso: nata con una grave disabilità fisica (assenza della parte terminale degli arti superiori e inferiori), una volta abbracciata la fede si è voluta impegnare in iniziative di aiuto solidale, dapprima come volontaria, poi come impiegata stabile. Oggi gestisce la Casa della Misericordia di Ulaanbaatar, struttura inaugurata da Papa Francesco nel 2023 e rivolta a persone in difficoltà, alle quali offre cibo, assistenza medica e counselling.
Per accompagnare i primi passi del radicarsi della Chiesa in un determinato territorio è fondamentale affinare gli strumenti per conoscerne l’identità culturale ed entrarvi in dialogo, per una crescita inculturata della fede. Anche qui il ruolo di persone native è essenziale. Selenge Ambrogio, businessman ed esperto orientalista, sente la vocazione di “tenere aperta la porta per far entrare la luce”. Da uomo colto ed esperto di dinamiche interculturali, è consapevole della complessità dell’annuncio evangelico e dei tempi lunghi che essa richiede; non per questo si sottrae al delicato compito di favorire la missione, mettendo a disposizione le sue competenze per incoraggiare chi è alla ricerca e promuovere l’incontro del Vangelo con la cultura mongola.
Enkhtuvshin Agostino è l’unico artista cattolico mongolo. Dottorato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Mosca, al ritorno in patria ha iniziato a collaborare con i primi missionari cattolici arrivati nel frattempo. Nell’insegnamento universitario e attraverso la sua produzione artistica offre importanti chiavi di lettura alla condivisione della fede.
Sussurrare il Vangelo al cuore di una cultura incoraggia un’evangelizzazione discreta e attenta ai dettagli, nella consapevolezza che il suo dinamismo è quello dell’attrazione, più che del proselitismo. In filigrana s’intravede la profondità come concetto centrale della missione. Un intero mondo culturale che si apre al Vangelo richiede delicatezza, pazienza e soprattutto profondità, quella che la dimensione orante, contemplativa è capace di custodire. Studio, carità e preghiera s’intrecciano in un vissuto connotato da discrezione e perseveranza. “Il missionario deve essere un ‘contemplativo in azione’. ... Se non è un contemplativo non può annunziare il Cristo in modo credibile. Egli è un testimone dell’esperienza di Dio e deve poter dire come gli apostoli: ‘Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita..., noi lo annunziamo a voi’ (1Gv 1, 1-3)”. Questa citazione della Redemptoris Missio (n. 91) richiama il profondo intreccio tra vita contemplativa e missione evangelizzatrice sulle strade del mondo. Accogliere la vocazione alla missione ad gentes – perché di questo si tratta, di una vocazione specifica - fa scoprire l’esigenza imprescindibile di adeguarsi sempre di più allo stile scelto da Cristo nel manifestarsi al mondo. Papa Leone XIV lo ha sintetizzato in una sua recente catechesi:
“Il centro della nostra fede e il cuore della nostra speranza si trovano ben radicati nella risurrezione di Cristo. Leggendo con attenzione i Vangeli, ci accorgiamo che questo mistero è sorprendente non solo perché un uomo – il Figlio di Dio – è risorto dai morti, ma anche per il modo in cui ha scelto di farlo. Infatti, la risurrezione di Gesù non è un trionfo roboante, non è una vendetta o una rivalsa contro i suoi nemici. È la testimonianza meravigliosa di come l’amore sia capace di rialzarsi dopo una grande sconfitta per proseguire il suo inarrestabile cammino. […] Uscito dagli inferi della morte, Gesù non si prende nessuna rivincita. Non torna con gesti di potenza, ma con mitezza manifesta la gioia di un amore più grande di ogni ferita e più forte di ogni tradimento. Il Risorto non sente alcun bisogno di ribadire o affermare la propria superiorità. Egli appare ai suoi amici – i discepoli – e lo fa con estrema discrezione, senza forzare i tempi della loro capacità di accoglienza. Il suo unico desiderio è quello di tornare a essere in comunione con loro […]”.
Vissuta come sussurro del Vangelo al cuore di una determinata cultura, la missione ad gentes si declina in una molteplicità di manifestazioni esterne, corrispondenti ai tanti ambiti in cui essa viene a concretizzarsi. C’è tuttavia una radice profonda, non sempre visibile, che sorregge ogni azione esterna e resiste anche in sua assenza. Tenendo per buona la definizione di missione ad gentes qui proposta, si può dire che la ragione della presenza del/la missionario/a in determinati contesti umani è “proclamare il Vangelo”; un’espressione tipica del nostro lessico intra-ecclesiale, ma che occorre spiegare. Già nel Nuovo Testamento, questa espressione è diventata una formula condensata per dire una realtà complessa, poliedrica. La parola stessa “Vangelo” è un riassunto, un tentativo di esprimere in una sola parola qualcosa di estremamente ampio e bello. Il punto è: mettere le persone in contatto con Cristo, farlo conoscere e amare, soprattutto laddove questa possibilità è rarefatta. La domanda da porsi è dunque: Come valutare il proprio lavoro missionario quotidiano? Qual è la qualità dell’annuncio proposto? O, ancora più fondamentale, c’è annuncio nel nostro lavoro missionario? C’è Vangelo? Certo, si potrebbe dire: “Tutto è Vangelo, tutto serve alla missione, tutto contribuisce”. Ne siamo davvero sicuri? Cerchiamo di essere onesti...
L’impressione è che anche in una situazione di vero ad gentes, una volta sistemati, trovato il nostro posto, la nostra “scrivania” da cui ci sentiamo qualcuno, finiamo per entrare in un meccanismo che ci fa performare come missionari/e, con tutta una serie di “cose da fare”, ma talvolta senza quella profondità, quella intenzionalità che invece fanno la differenza. In realtà, evangelizzare è qualcosa di decisamente più profondo e ancora più bello. È vivere la nostra relazione personale con Cristo a un livello così vitale che poi si riversa nella nostra vita quotidiana, qualunque essa sia. Pertanto, le nostre esperienze possono essere molto varie, possono (e in alcuni casi devono) persino cambiare, purché al di sotto, dentro di noi, ci sia quella relazione viva con Cristo, unico Sommo Sacerdote, unico vero Pastore, Fratello universale. Se questa dimensione manca, siamo davvero da compiangere. Che vita miserabile, senza quel fuoco!
Intravediamo, allora, una dimensione che potremmo definire “generativa” della missione. Le persone consacrate sono chiamate alla paternità e maternità spirituale. Non basta che un padre o una madre lavorino, si impegnino per garantire istruzione, salute e opportunità ai propri figli; devono anche portare dentro di sé le loro crisi, accettare rifiuti, opposizioni, proteste e fallimenti. Solo quando un padre o una madre esplora questo mistero dei propri figli, portandolo in profondità, presentando tutto a Dio nella preghiera, diventa veramente generativo, fecondo. In altre parole, vivere davvero la vocazione missionaria ad gentes implica una partecipazione intima al mistero di Cristo, inviato del Padre per la salvezza di tutti. Questa è la sua dimensione più profonda e necessaria, capace di dare fecondità alle opere esterne. Anche qui, il maestro è San Paolo. Così egli descrive il suo ministero missionario: “Io stimo che Dio abbia messo in mostra noi, gli apostoli, ultimi fra tutti, come uomini condannati a morte, poiché siamo diventati uno spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi siamo pazzi a causa di Cristo, ma voi siete sapienti in Cristo; noi siamo deboli, ma voi siete forti; voi siete gloriosi, ma noi siamo disprezzati. Fino a questa stessa ora, noi abbiamo fame e sete; siamo nudi, schiaffeggiati, non abbiamo fissa dimora e ci affatichiamo lavorando con le nostre proprie mani; ingiuriati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; diffamati, esortiamo; siamo diventati e siamo tuttora come la spazzatura del mondo, come il rifiuto di tutti. Io vi scrivo queste cose non per farvi vergognare, ma per ammonirvi come miei cari figli. Poiché, quand’anche aveste diecimila pedagoghi in Cristo, non avete però molti padri, poiché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante l’evangelo. Io vi esorto dunque: siate miei imitatori” (1Cor 4,9-16). Paolo sente di aver generato i suoi discepoli in Cristo Gesù; il suo ministero non è stato soltanto un’opera di convincimento e neppure un esclusivo impegnarsi per migliorare le condizioni di vita delle persone a cui era stato inviato, ma si è connotato come un “generare alla fede”, con tutta l’intima partecipazione interiore che questo comporta.
Lungo la luminosa storia dell’evangelizzazione, quanti esempi si trovano di uomini e donne che hanno vissuto così, a questo livello di profondità e per questo sono stati fecondi! Il mondo spesso non si è neanche accorto di loro, se non dopo la loro morte; ma il loro sacrificio ha contribuito a far crescere silenziosamente ed efficacemente il seme del Vangelo in tanti Paesi, anche in mezzo a lotte e persecuzioni. In tempi così incerti e densi di fitte nubi di odio tra i popoli, vale la pena ricordare l’esempio del Beato Pierre Claverie, OP, vescovo di Oran (Algeria), martire. Non molto tempo prima dell’attentato che lo uccise insieme al suo amico musulmano Mohamed, in un’omelia aveva usato queste parole per descrivere la missione della Chiesa in Algeria: “Dov’è casa per noi? Siamo lì grazie a questo Messia crocifisso. Per nessun’altra ragione, per nessun'altra persona! Non abbiamo interessi da difendere, nessuna influenza da mantenere... Non abbiamo potere, ma siamo lì come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, tenendogli la mano, asciugandogli la fronte. A causa di Gesù, perché è lui che soffre, in quella violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia di innocenti. […] Dove dovrebbe essere la Chiesa di Gesù, che è essa stessa il Corpo di Cristo, se non prima di tutto lì? Credo che stia morendo proprio perché non è abbastanza vicina alla croce di Gesù... La Chiesa sbaglia, e inganna il mondo, quando si presenta come una potenza tra le altre, come un’organizzazione, anche umanitaria, o come un movimento evangelico spettacolare. Può risplendere, ma non arde del fuoco dell’amore di Dio”.
Possa l’intercessione del Beato Claverie e degli innumerevoli testimoni del Vangelo in tutti i continenti confermarci nella vocazione missionaria ad gentes, facendola rifiorire anche ai nostri tempi. (Agenzia Fides 5/10/2025)
*Prefetto Apostolico di Ulaanbaatar