ASIA/ARABIA SAUDITA - Migranti africani in centri di detenzione: vittime di sfruttamento ed esposti al Covid

sabato, 27 marzo 2021 diritti umani  

Londra (Agenzia Fides) - In Arabia Saudita, la pandemia di coronavirus e le difficoltà economiche causate dal crollo del prezzo del petrolio hanno colpito i lavoratori e lavoratrici migranti soprattutto quelli provenienti dall’Africa. Nel pieno dell’emergenza sanitaria decine di lavoratrici e di lavoratori sono stati abbandonati dai datori di lavoro senza salario, documenti o sussistenza di alcun tipo. Molti di essi, secondo quanto denuncia Human Rights Watch in un rapporto pubblicato a dicembre scorso, sono fermi in strutture detentive. La detenzione di migranti in strutture deplorevoli in Arabia Saudita è un problema di vecchia data, rileva il rapporto. Già nel 2014, cittadini etiopi denunciavano che migliaia di lavoratori stranieri erano detenuti in strutture di detenzione improvvisate senza cibo e riparo adeguati, prima di essere deportati. Nel 2019 , Human Rights Watch ha poi identificato una decina di prigioni e centri di detenzione in cui i migranti sono stati trattenuti per vari periodi. Nell'agosto 2020, Human Rights Watch ha identificato tre centri di detenzione nella provincia di Jizan e Jeddah, dove migliaia di migranti etiopi erano detenuti in condizioni deplorevoli.
Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, Libano e Giordania, sono almeno 35 milioni i lavoratori migranti. Provengono in maggioranza dall’Asia e dall’Africa. Quelli africani sono in maggioranza egiziani, etiopi, eritrei, keniani, somali e ugandesi. Sono in gran parte impiegati in lavori umili: domestiche, muratori, personale di servizio, ecc. Il sito specializzato migrant-rights.org ha calcolato che in Arabia saudita il 99,6% dei lavoratori stranieri sia di origine straniera e, secondo l’Oil, gli stranieri lavorano più di 60 ore alla settimana.
“Gli uomini etiopi, eritrei e somali – spiega all'Agenzia Fides abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo che da anni segue i temi dell’immigrazione – sono impiegati soprattutto nei cantieri senza alcuna tutela e, soprattutto, senza documenti. Diversa è la situazione delle donne. Esse arrivano legalmente attraverso la kafala. Si tratta di un sistema legale attraverso le donne si rivolgono ad agenzie nel Paese dove le lavoratrici migreranno e procurano loro uno sponsor (kafeel) in cambio di un compenso. Le donne spesso si indebitano con la speranza di cambiare vita. E si ritrovano schiave». Normalmente, infatti, lo sponsor è il datore di lavoro, che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è responsabile del visto e dello status giuridico. Ha quindi un enorme potere su di loro. Un potere che va al di là del rapporto tra datore di lavoro e dipendente e sfocia spesso in abusi e maltrattamenti. “Le donne sono considerate come schiave - continua abba Mussie -. Spesso non possono uscire neppure da casa. Con la crisi del coronavirus molti datori di lavoro le hanno licenziate abbandonandole di fatto a una vita da immigrate illegale. Alcune di esse sono cadute nella trappola della prostituzione e sono costrette a lavorare nelle case chiuse di Paesi del Golfo”.
Molte donne e uomini vengono rinchiusi in carceri dove le condizioni di vita sono complicate. “Negli ultimi mesi – conclude abba Mussie -, la sola Arabia Saudita ha espulso 150.000 etiopi. Ho avuto l’occasione di sentire alcuni eritrei prigionieri mi hanno descritto i penitenziari come luoghi superaffollati, sporchi dove i migranti vivono a contatto trasmettendosi numerose malattie. Tra le quali anche il coronavirus”.
(EC) (Agenzia Fides 27/3/2021)


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