ASIA - Il tortuoso cammino della democrazia “a trazione anteriore” in Asia centrale

martedì, 10 novembre 2020 diritti umani   politica   società civile   democrazia  

Almaty (Agenzia Fides) - Esiste una componente culturale, sociale e politica economica, che rappresenta un tratto comune nelle nazioni dell’Asia centrale: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan, i cinque “stan”, come vengono definiti tali paesi dell’ex Unione Sovietica sono repubbliche ancora troppo giovani e con tracce di democrazia poco definite nel proprio codice genetico. Lo spiega all’Agenzia Fides don Edoardo Canetta, per vent'anni missionario in Kazakistan, cinque dei quali vissuti da Vicario Generale dell’Asia centrale, e oggi docente all'Accademia Ambrosiana a Milano: “In ognuno di quei cinque paesi è molto difficile trovare una grande tradizione politica o partitica: questo è inevitabile dopo 70 anni di regime comunista. In quell’area del mondo, inoltre, il potere è legato a dinamiche localistiche: vi sono ancora divisioni etniche e di clan non sempre dichiarate, ma molto pesanti, che gravano sulle scelte politiche. Per questo, non è detto che ogni manifestazione di piazza sia una dimostrazione di democrazia”, ha spiegato, riferendosi in particolare alla crisi kirghisa delle scorse settimane. “Viaggiando in queste nazioni come Vicario Generale, ho potuto osservare che, nonostante i tentativi di avvicinarsi ai parametri occidentali, la realtà politica di questi paesi è ancora intrisa di dinamiche proprie della loro eredità nomade. In passato, se non c’era un leader da seguire il popolo non si muoveva, però se questo leader non aveva il consenso del popolo non andava da nessuna parte. E’ quella che ho definito spesso ‘democrazia a trazione anteriore’, caratterizzata cioè da leader politici piuttosto autoritari; ma i leader, senza l’appoggio popolare, non hanno futuro”, spiega don Canetta.
Nell’autunno 2020, gli elettori di Kirghizistan e Tagikistan sono stati chiamati alle urne - nel primo caso si trattava di un voto parlamentare, nel secondo di quello presidenziale - dando vita a due scenari all’apparenza diametralmente opposti. Da una parte, il popolo kirghiso, di fronte ad evidenze di brogli, nelle ore successive al voto è sceso in piazza a Bishkek, capitale del paese centroasiatico, per chiedere l’annullamento delle elezioni da cui risultava vincitore il filorusso Sooronbay Jeenbekov. La crisi, ribattezzata “terza rivoluzione kirghisa”, si è risolta solo due settimane dopo con la salita al potere di Sadyr Japarov, personaggio controverso, legato a clan criminali, che ha di fatto accentrato tutti i suoi poteri, tradendo in qualche modo i propositi democratici della rivoluzione. Dall’altra parte, Emomali Rahmon è stato eletto per la sesta volta presidente del Tagikistan, con più del 90% dei consensi: ciò significa che il potere nel paese dell’Asia centrale è detenuto dalle stesse mani da 28 anni e che, se Rahmon dovesse portare a termine il mandato, il periodo si allungherebbe a 35 anni. In questo caso, l’esito elettorale non ha portato ad alcuna protesta vagamente paragonabile, se non a quelle del popolo bielorusso contro Aljaksandr Lukašėnka, almeno a quelle dei vicini di casa kirghisi. Se, come spiega all’Agenzia Fides il ricercatore Davide Cancarini, il Kirghizistan ha almeno una parvenza di democrazia, in cui la popolazione tende a ribellarsi alle decisioni che ritiene ingiuste, in Tajikistan questo non avviene: insieme al Turkmenistan, il paese guidato da Rahmon, è il più autoritario dell’Asia centrale e, secondo gli osservatori, uno tra i più autoritari a livello mondiale.
Divenuti indipendenti dall’Unione Sovietica solo nel 1991, le cinque nazioni, dunque, hanno davanti a sé un cammino verso il raggiungimento della democrazia ancora piuttosto incerto e che spesso, come spiega a Fides lo studioso e ricercatore Davide Cancarini, ha una connotazione più economica che politica: “Si sta affermando un modello basato su ‘aperture autoritarie’ che richiama vagamente - anche se il paragone può sembrare azzardato - l’esempio cinese”. In particolare, afferma il ricercatore, l’Uzbekistan sembra essere precursore in tal senso: “Dopo la morte dell’autoritario presidente Islom Karimov, il suo successore Shavkat Mirzayev sembra ascoltare maggiormente i bisogni dei cittadini, ma non si può dire che abbia aperto da un punto di vista democratico. Quello che sta cercando di fare Mirzayev è aprire il paese a livello economico per favorire l’afflusso di investimenti esteri e la nascita di un tessuto imprenditoriale locale. Lo sta facendo anche perché è consapevole che in Uzbekistan, un paese di 32 milioni di abitanti tra cui moltissimi giovani, la disoccupazione può diventare un problema sociale pronto ad esplodere”.
Un passo verso la democrazia sembrava essere stato compiuto dal Kazakistan lo scorso anno, con le dimissioni di Nursultan Nazarbayev, alla guida del paese dal 1990. Ma, secondo Davide Cancarini, la realtà si è dimostrata ben diversa: “Il modello di Nazarbayev non è un esempio virtuoso: ha fatto un passo indietro favorendo la salita al potere di Tokayev, un suo uomo e non ha cambiato di molto la situazione. In Kazakistan, proprio per questo, si sono sollevate proteste dovute al fatto che molti cittadini kazaki che non vedevano l’ora che Nazarbaev si facesse da parte, si sono attivati per sfruttare il momento. Le aperture democratiche sperate non ci sono state. Tokayev sta procedendo nel solco di Nazarbayev che, secondo alcuni, è ancora il presidente-ombra”.
(PA) (Agenzia Fides 10/11/2020)


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