EUROPA/ITALIA - Il testamento biologico: contributi alla riflessione (1)

mercoledì, 13 febbraio 2008

Roma (Agenzia Fides) - Clamore ha suscitato in Italia, nell’ottobre scorso, la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha deciso un nuovo processo in una diversa sezione della Corte di Appello di Milano, sul caso di Eluana Englaro, in coma dal 1992 a seguito di un incidente stradale. La Corte ha escluso che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sè, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario. Ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l'interruzione soltanto, dovendo altrimenti prevalere il diritto alla vita, in presenza di due circostanze concorrenti:
1) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacitá di percezione;
2) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.
L’invito, che la Corte fa, a ricostruire la volontà pregressa del malato, in realtà apre alla possibilità di un intervento del legislatore a favore del testamento biologico, che per molti è l’anticamera dell’eutanasia. Del resto, appare un’evidente forzatura consentire la possibilità che il giudice, concorrendo le due condizioni, autorizzi la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali di una persona in stato vegetativo. Una forzatura solo se si consideri i dubbi che tanti hanno su questa materia ed in particolare relativamente al fatto che la sospensione delle cure ordinarie equivalga ad una pratica eutanasica.
Sulla questione del Testamento Biologico ‘Agenzia Fides ha scelto come fonte privilegiata l’Associazione Scienza & Vita, “che presidia le frontiere della vita, dal suo sorgere sino al suo termine naturale”. Sul suo sito (www.scienzaevita.org), l’Associazione ha inteso proporre una campagna di interviste contro l’ipotesi di una legge che disciplini il testamento biologico. Riporteremo, a più riprese, alcune di queste interviste, dalle quali emergono i dubbi dei medici sul testamento biologico perché preoccupati dalla possibilità di innescare, una pericolosa deriva a favore dell’eutanasia; viene inoltre evidenziata la carenza generalizzata di hospice e viene ribadita la necessità di garantire le cure palliative, perché dalla loro efficacia e diffusione dipende il crollo della domanda di morte.

Sulla questione del testamento biologico pubblichiamo un intervento del Prof. Raffaele Antonelli Incalzi, Medico. Specialista in Medicina Interna e in Geriatria e Gerontologia. Professore associato di Geriatria all’Università Cattolica di Roma. Professore Ordinario di Geriatria all’Università Campus Bio-Medico. Direttore scientifico della Fondazione San Raffaele - Cittadella della Carità (Taranto).Membro del comitato scientifico dello studio SaRA (Salute Respiratoria nell’Anziano), dei Gruppi di Studio di Cardiologia Geriatrica e di Riabilitazione Cardiologica Geriatrica. Socio fondatore della SIMREG (Società Italiana di Medicina Respiratoria Geriatrica). Consulente editoriale di numerose riviste internazionali. Docente di Riabilitazione cardiorespiratoria, Malattie dell’apparato respiratorio e Malattie dell’Apparato gastroenterico nella Scuola di specializzazione in Geriatria e Gerontologia dell'Università Cattolica e di Geriatria e Gerontologia della scuola di Specializzazione di Geriatria e Gerontologia dell’Università Campus Biomedico. Docente di Geriatria e Gerontologia nel corso di laurea triennale per fisioterapisti gestito dall’Università Cattolica e dal S. Filippo Neri. Docente di Malattie Respiratorie nel corso di laurea per Terapisti occupazionali dell’Università Cattolica.

Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Concettualmente logica, in quanto ognuno ha diritto ad esprimere e vedere rispettate le proprie aspettative sulla fine della vita, espone a notevoli problemi pratici, in quanto la percezione stessa della nostra esistenza e del suo valore cambia in funzione dello stato in cui ci troviamo e quanto ci pare logico in uno stato di relativo benessere può risultare del tutto immotivato se il nostro stato di salute si aggrava sensibilmente. Ad esempio, se disdegniamo la disabilità e la sofferenza allorché stiamo bene e, di conseguenza, poniamo vincoli procedurali a chi ci assisterà al fine di limitare la nostra esposizione a queste condizioni, diamo per certo che un’esperienza diversa e pur dolorosa come la malattia grave non condizionerà la nostra percezione del valore della vita.
In gravi condizioni, potremmo invero reputare più che dignitosa e motivata una vita assai problematica per il valore stesso che la dimensione affettiva e relazionale le conferisce. E’ dunque indispensabile che un eventuale testamento biologico sia automaticamente rimesso in discussione allorché ricorrano gli estremi per la sua applicazione, e non vada considerato un dogma cui attenersi acriticamente. In pratica, il malato deve avere l’opportunità di riconsiderare il proprio giudizio sulla vita presente e residua in base al maturare del bagaglio esperienziale. Non solo: se ogni individuo può decidere per sé, almeno in una prospettiva individualistica, chi è chiamato a dare corso alle sue scelte, medici e sanitari in generale, o ad accettarle comunque, familiari e amici, può non trovare questo compito agevole, naturale e conforme al proprio sentire morale.
In conclusione, il testamento biologico dovrebbe, ove fosse implementato, rappresentare un indirizzo della condotta di chi assisterà quella donna o quell’uomo, non un vincolo rigido e, in ogni caso, andrà ridiscusso con il mutare della condizione di salute. Tale impostazione è a maggiore ragione logica per il paziente che, incorso in una condizione critica, non è in grado, per deficit delle capacità relazionali, di rivalutare il proprio stato. In questa situazione, infatti, è auspicabile che parenti e medici considerino il testamento biologico quale linea di indirizzo, non disposizione vincolante. Da una parte, è logico che il rifiuto del paziente ad essere oggetto di cure “esagerate” e potenzialmente in grado di protrarne la sofferenza senza alcuna prospettiva, coincida con il principio ispiratore della condotta medica che contrasta l’accanimento terapeutico. Dall’altra, l’espressa volontà di non essere curato in una condizione critica, ma che riserva delle prospettive di miglioramento, anche solo parziale (ad es. recupero delle funzioni mentali), si configura come una chiara ambizione al suicidio, incompatibile
con la buona pratica medica. Pertanto, ove fosse disciplinato, il testamento biologico andrebbe redatto secondo delle linee guida che lo rendano realmente applicabile in rapporto al ruolo e ai sentimenti di quanti, medici e parenti, ne sono in qualche modo coinvolti. In altri termini, la scelta vera è tra il rifiuto dell’accanimento e la scelta dell’accanimento, poiché molte delle problematiche sollevate sul tema nascono semplicemente da una, peraltro a volte motivata, scarsa considerazione della capacità di giudizio del medico.
Queste mie riflessioni nascono da un approccio molto pratico al problema, esente da qualunque condizionamento ideologico. Naturalmente, a monte, potrebbero esservi altre e importanti considerazioni, ad esempio sulla liceità stessa di disporre della propria vita, ma ciò rimanderebbe a
principi e logiche che la nostra società non è in grado di valutare. Pertanto ho preferito una discussione di minima, orientata all’eventuale applicazione, pervenendo peraltro a conclusioni non dissimili da quelle che una più alta ed eticamente fondata considerazione dell’argomento determinerebbe. Ciò a conferma indiretta che raziocinio e senso morale, non necessariamente fede, convergono nel plasmare la nostra condotta.

Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Il ricorso a terapie diverse da quella antalgica e dal supporto vitale (idratazione e nutrizione) in un paziente privo di capacità relazionale, del tutto dipendente dal supporto esterno per la sopravvivenza e, comunque, senza speranze scientificamente fondate di un miglioramento che configuri almeno la ripresa di sia pure elementari relazioni con il mondo esterno.

Che cosa intende per eutanasia?
In senso etimologico, l’eutanasia, la buona morte, è quella che si garantisce, secondo scienza e coscienza, assistendo il paziente nel migliore modo umanamente e tecnicamente, ma evitando l’accanimento terapeutico, il ricorso cioè a interventi terapeutici che, pur teoricamente in grado di garantire un breve prolungamento dell’esistenza, conseguirebbero l’obiettivo al costo di protrarre una condizione estremamente dolorosa in assenza di capacità relazionale e di una possibile espressione di attaccamento alla vita. Oggi, però, il termine ha acquisito un significato ben diverso, e negativo, perché si associa, nell’immaginario collettivo, ad un’azione volta a procurare consapevolmente la morte del malato.

Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Le risposte derivano da un mix di fonti; tra quelle fondamentali vi sono il bagaglio di esperienza e la correlata capacità di percepire l’altro, nella fattispecie il malato, nelle varie espressioni del suo rapporto con il mondo che lo circonda. Pertanto, è fondamentale l’insegnamento e l’esempio, ma sarebbe ottimistico pensare di sapere affrontare una problematica così impegnativa senza aver maturato una sufficiente esperienza umana e professionale. Questa può apparire una sostanziale negazione dell’attitudine del giovane medico a gestire questa problematica, ma non è diversa dal riscontro della particolare difficoltà che in mancanza di esperienza si incontra ad affrontare tematiche complesse, anche squisitamente tecniche. Per inciso, la sensibilità crescente verso il tema testamento biologico forse dipende in qualche misura dalla percezione di inadeguatezza del medico a curare conoscendo e capendo il malato e, quindi, personalizzando il proprio operato.

Esiste, e in che cosa consiste, il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Può esservi: il medico può essere chiamato a scelte difformi dal suo sentire, ad esempio di fronte ad
un intento prettamente suicidiario. Sul piano legislativo è molto difficile disciplinare questo conflitto e, probabilmente, più che un vero corpus juris, secondo la tradizione latina, qualche risposta si può trovare nei principi della common law anglosassone, cioè nelle norme basate sui precedenti, proprio perché è problematico prevedere e disciplinare la gamma delle situazioni di conflitto. Al medico spetta comunque il compito di illuminare il paziente sul suo stato, senza illuderlo, ma anche senza ignorare quanto, anche in un contesto di dolore e disabilità, illumina la vita quotidiana. A tal fine, però, il medico deve acquisire un livello di conoscenza del paziente che l’attuale organizzazione del lavoro mediamente preclude, orientando più a conoscere la malattia che
il paziente,. E’ proprio questo limite che speso provoca situazioni fortemente conflittuali, mancando
al medico la percezione unitaria del malato secondo l’insegnamento virchowiano.

Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
Mai.

Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
La pianificazione dei trattamenti è la scelta condivisa tra medico e paziente di un piano terapeutico e dei relativi obiettivi alla luce della situazione presente e degli sviluppi attesi dello stato di salute. Implica l’informazione responsabile e “delicata” del paziente e, in realtà, non sempre è possibile, ad
esempio non lo è quando sussista una particolare labilità emotiva del paziente. Il testamento biologico è mediamente inteso come una disposizione che un soggetto dà (non lo definirei un paziente perché lo redige mediamente quando non è ancora malato o non lo è gravemente) in merito
al suo futuro e alle modalità con cui desidera essere assistito. Il testamento biologico indica quindi dei principi generali e delle linee di condotta, laddove la pianificazione dei trattamenti ha carattere operativo, ma, necessariamente, tiene conto strettamente della volontà, informata, del paziente. Pertanto la pianificazione dei trattamenti può esser alternativa al testamento biologico, ove questo manchi, applicativa o correttiva, ove sussista.

L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Teoricamente sì, ma queste cure e le relative strutture hanno a volte un che di disumano e disumanizzante che rappresenta un rimedio peggiore del male. Implicano quindi una speciale formazione degli operatori e meccanismi di protezione dei medesimi dal burn out. Nell’insieme, peraltro, si tratta di realtà assai disomogenee, alcune delle quali preziose, altre davvero avvilenti. Mi
pare che siano mediamente preferibili le modalità di assistenza domiciliare al terminale. Nella mai realtà geografica vi sono lacune enormi sia quantitative che qualitative. (1 - continua) (D.Q.) (Agenzia Fides 13/2/2008; righe 164, parole 1.980)


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