VATICANO - Cardinale Tagle: il “nuovo inizio” del Concilio di Shanghai e la missione della Chiesa oggi

martedì, 21 maggio 2024 cardinale tagle   missione   inculturazione   sinodalità  

Pubblichiamo l’intervento del Cardinale Luis Antonio Tagle, Pro-Prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, che ha concluso il Convegno Internazionale “100 anni dal Concilium Sinense: tra storia e presente” (Pontificia Università Urbaniana, 21 maggio 2024)

Alla fine di questa giornata di Convegno sul Concilio di Shanghai a 100 anni dalla sua realizzazione, così ricco e pieno di spunti sorprendenti, non credo sia possibile e forse nemmeno utile fare un bilancio o una sintesi dei contenuti e dei temi trattati.

Abbiamo verificato come lo stesso Concilio di Shanghai non possa essere consegnato alla storia come qualcosa da archiviare. Perché le domande da cui ha preso le mosse, le questioni che ha toccato e le soluzioni che ha suggerito sono, per così dire, ancora tutte di estrema attualità, pur considerando i dovuti mutamenti epocali.
Conviene pertanto che il confronto e il dialogo su tanti dei temi trattati rimanga aperto, anche nella molteplicità delle diverse prospettive emerse in questo Convegno.
In questo mio intervento, provo a ricordare alcuni dei tanti aspetti che rendono quella esperienza sinodale ancora carica di suggerimenti per il presente e il futuro della missione della Chiesa nel suo cammino dentro la storia del mondo, e anche per il presente e il futuro delle comunità cattoliche cinesi.


A) Il Primum Concilium Sinense rappresenta una realizzazione, un compimento fecondo della chiamata alla sinodalità che segna il nostro presente ecclesiale.

Nella processione solenne che inaugura il Concilio di Shanghai ci sono 45 prelati con la mitra. E tra loro si contano 17 francesi, 10 italiani, 5 spagnoli, 5 belgi, 4 olandesi, 2 tedeschi e 2 cinesi. Ci sono anche Padri agostiniani, gesuiti, lazzaristi, domenicani, e membri di istituti missionari provenienti da Parigi, da Milano, da Parma, dall'Irlanda e dagli Stati Uniti.

Il Delegato apostolico Celso Costantini, che presiedeva il Concilio su mandato di Papa Pio XI, nel suo discorso d’apertura – come ci ha ricordato Padre Antonio Chen Ruiqi - citò Eusebio di Cesarea per paragonare l’Assemblea sinodale di Shanghai al Concilio di Nicea, dove «coloro che erano lontani, si videro riuniti insieme».

Costantini disse poi che il Concilium Sinense segnava il tempo di una “Palingenesi Cinese”.

Al di là dell’enfasi, è pur vero che non si era mai realizzata, in uno dei Paesi cosiddetti “di missione”, un’Assemblea ecclesiale così ampia e variegata per provenienza culturale, nazionale, linguistica e ecclesiale dei Padri conciliari.
 
I Padri del Concilio di Shanghai non potevano saperlo, ma il loro Concilio è stato, per certi versi, una specie di Concilio Vaticano II “Ante litteram” in terra cinese. A Shanghai, la sinodalità emerse come dimensione non secondaria, ma costitutiva ed irrinunciabile della vita della Chiesa.

Come ci ha ricordato Papa Francesco il 18 ottobre 2021, parlando alla Diocesi di Roma, «quando si parla di Chiesa sinodale - come ci insegnano gli Atti degli Apostoli - si deve evitare di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative».

Come a Nicea, e come al Concilio Vaticano II, anche a Shanghai la sinodalità non si manifestò in esortazioni generiche, o astratte dichiarazioni di principio, ma si esercitò con decisioni concrete e condivise, intorno a questioni di interesse reale.

Costantini, nei suoi interventi e nelle sue memorie, ripete che lo scopo del Concilio era quello di fornire alla Chiesa in Cina un “Codice missionario”, per il presente e il futuro, al cui centro –come ci ha ricordato Gianni Valente- c’è il richiamo forte a tenere periodicamente Sinodi e Concili nei singoli vicariati, a livello regionale e generale.


B) Il primo Concilium Sinense mostra come la missione della Chiesa protegga e promuova la dignità dei popoli e delle loro culture.

La Maximum Illud e il Concilio di Shanghai riaffermano con decisione che l’annuncio gioioso del Vangelo viene testimoniato dalla Chiesa, in mezzo ad ogni popolo e a tutti i popoli, con amicizia e profonda simpatia verso le loro attese e i loro buoni desideri. Va compiuto senza strumenti di pressione politica, sociale o culturale per imporre la propria egemonia e la propria rilevanza.

Papa Benedetto XV aveva stigmatizzato come autentica «Piaga dell’apostolato» lo spettacolo di missionari impegnati più ad accrescere il potere delle rispettive nazioni di provenienza che a «dilatare il Regno di Dio». L’annuncio cristiano - ripeteva la Maximum Illud - non è per sua natura “estraneo” a nessun popolo e a nessuna comunità umana.

Oggi abbiamo ascoltato come tanti decreti del Concilio di Shanghai puntano ad evitare che il cristianesimo fosse ancora presentato e percepito come una ideologia religiosa imposta da altre civiltà, o una forma di imperialismo religioso.

Questa consapevolezza è arrivata fino a noi.

San Giovanni Paolo II, in Novo Millennio Ineunte, ha scritto che il cristianesimo «porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato». E Papa Francesco, in Evangelii Gaudium n°116, ha ripetuto che quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo». Per questo – continua il Papa - «il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale», e la Chiesa, nella sua opera missionaria, assume su di sé anche valori positivi proposti da ogni cultura e da ogni popolo, che «arricchiscono la maniera in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto». E «sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse», e nell’evangelizzazione «non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica».

Per questo, sottolinea ancora Papa Francesco (n°117), «Non possiamo pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia, perché la fede non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare. Una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo». 

Già al Concilio di Shanghai, la sensibilità missionaria di Costantini riconosceva l’urgenza di applicare quello che può essere definito come il “metodo dell’adattamento”. Esso teneva conto della realtà culturale e anche politica della Cina, allora in una fase di profondo mutamento e piena di incognite, e riconosceva la necessità di liberarsi da quella che gli studiosi di Costantini definiscono come «Occidentalismo», ossia «l’attitudine a trasferire tutti i rivestimenti culturali del cristianesimo occidentale alle nuove Chiese, che sorgevano presso i popoli extraeuropei».
 
Proprio la passione per l’annuncio del Vangelo portava a riconoscere che, nell’epoca precedente allo stesso Concilio, si erano percorse strade sbagliate.

La confusione, spesso subìta, tra opere missionarie e strategie colonialiste delle potenze occidentali, aveva danneggiato la missione.

Tutto ciò che contribuiva a identificare il cristianesimo come bandiera religiosa di politiche e interessi esterni alimentava diffidenza, ostilità e addirittura odio verso la Chiesa e i missionari.

I lavori e documenti del Concilio di Shanghai - come abbiamo sentito da più relatori oggi - sono percorsi dalla continua sollecitudine ad aprirsi ai valori della cultura e della socialità cinese.

La distinzione tra l’annuncio del Vangelo e le forme culturali in cui esso avviene, insieme all’ apertura a valorizzare e custodire le tradizioni culturali dei diversi popoli, hanno segnato il rinnovamento ecclesiale del Concilio Vaticano II.

Oggi, quando le distanze geografiche tra i popoli si sono relativizzate, questo criterio orientativo è chiamato a confrontarsi con sviluppi nuovi, come quelli della cosiddetta “ibridazione delle culture”. Infatti, le diverse tradizioni e appartenenze culturali, sociali, etniche e religiose non vanno utilizzate come bandiera identitaria per contrastare le tendenze all’omologazione della globalizzazione, e divenire semenzaio di atroci conflitti.

L’esperienza del Concilio di Shanghai, e poi quella del Concilio Vaticano II, suggeriscono altre strade; ovvero la possibilità che le tradizioni culturali non si chiudano in se stesse, in irriducibile opposizione con le altre, ma che rimangano aperte all’incontro, allo scambio e all'apprendimento reciproco, verso un arricchimento a vantaggio di tutta la popolazione, e non solo di élite qualificate.

"Homo sum; humani nihil alienum a me puto". Sono uomo, e non considero estraneo a me niente di ciò che è umano. La famosa frase dell’autore latino Terenzio indica l’orizzonte vasto e universale dove le identità possono offrire e trovare arricchimento nello scambio reciproco, a vantaggio di tutti e di tutta la famiglia umana.

È quell’orizzonte della fratellanza universale indicato anche da Papa Francesco nel Documento di Abu Dhabi e nella Enciclica Fratelli Tutti. Esso non cancella ma abbraccia le identità e le tradizioni culturali, i loro possibili incontri e le loro possibili “contaminazioni”. Fuori da questo orizzonte, da questa apertura universale, anche i richiami odierni alle “indigenizzazioni”, o specificità locali, possono degenerare in forme di chiusura in se stessi, introversioni incapaci di dialogo e dunque, alla lunga, sterili e infruttuosi ripiegamenti narcisistici. Ogni vera identità culturale è infatti sempre in cammino!


C) il frutto dell’evangelizzazione: una Chiesa veramente locale, in comunione con il Vescovo di Roma e con altre Chiese locali

Al tempo del Concilio di Shanghai, l’urgenza di abbandonare strade senza uscita e favorire un nuovo inizio dell’opera missionaria non diventa. - come ci ha ricordato il Cardinale Parolin - una specie di processo alla storia, e alla storia delle missioni.

Come è noto, in alcuni ambienti missionari ci furono malumori e critiche verso il Concilium di Shanghai come ci erano stati verso la Lettera apostolica Maximum Illud, accusati di ingratitudine verso l’opera dei missionari.

Non era però così. Perché, nel Magistero di quegli anni, e nelle disposizioni del Concilio di Shanghai, la vita santa e la gratuita dedizione apostolica di tanti missionari furono sempre riconosciuti come elementi essenziali dell’evangelizzazione. Piuttosto, si aggiunse che il loro compimento doveva costituirsi nel fiorire delle Chiese locali, con Vescovi e sacerdoti cinesi a cui affidare la guida delle comunità locali, come era avvenuto in tutta la storia della Chiesa.

Realizzare dunque una Chiesa cinese e missionaria. Una Chiesa che vive la propria fisionomia e identità autoctona non come ripiegamento o chiusura autoreferenziale, ma sempre in apertura alla Chiesa universale e alle altre Chiese locali. Aperture custodite e garantite dallo Spirito Santo nella comunione con il Vescovo di Roma, il Successore di Pietro.
Va vista in questa luce anche l’insistente richiamo del Concilio sull’urgenza di far crescere presto il ruolo del clero locale, e di non precludere ai sacerdoti autoctoni nessun ruolo di responsabilità. Questo non per imporre nuovi equilibri di potere tra missionari e preti cinesi, o per ragioni tattiche, ovvero per cercare di diventare graditi al crescente nazionalismo cinese.
La speranza era piuttosto quella che il seme gettato dai missionari potesse essere coltivato con frutto da sacerdoti e pastori appartenenti al popolo cinese e che – come ci ha ricordato Papa Francesco nel suo messaggio - l’annuncio di salvezza potesse raggiungere le persone e le comunità parlando la loro “lingua materna”.


D) Celso Costantini, figura profetica sulle orme di Matteo Ricci

E adesso, in conclusione, vorrei dedicare qualche parola anche a colui che umanamente è stato il regista del Concilio di Shanghai: l’Arcivescovo Celso Costantini, Delegato pontificio e Legato papale al Concilio.
Di lui hanno parlato già tutti, e in particolare il Cardinale Pietro Parolin e il Professor Liu Guopeng.
Il Delegato apostolico Celso Costantini, quando lasciò la Cina, venne a lavorare nel nostro Dicastero, a Propaganda Fide. Divenne Segretario del Dicastero missionario e poi anche Cardinale.
Questo servitore della Chiesa – come già sottolineato - interpretò la presenza al Concilio di Shanghai di vescovi missionari provenienti da ogni parte del mondo, come un segno del fatto che tutte le Chiese del mondo erano interessate e amorevolmente coinvolte con quanto succede ai cattolici in Cina.

Il cammino della Chiesa - lo ha detto il Papa nel suo Video Messaggio - è passato e passa per strade impreviste; periodi in cui si può assaporare “il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione” di cui parla il Profeta Isaia.

Io credo che Costantini e tanti Padri del Concilio di Shanghai sarebbero contenti nel riconoscere che oggi la comunità dei battezzati cattolici in Cina è pienamente cattolica e pienamente cinese.
Sarebbero contenti anche per l’affetto e la prontezza creativa con cui tante comunità cattoliche cinesi seguono i suggerimenti e le indicazioni pastorali che arrivano loro dalla Chiesa di Roma e dal suo Vescovo, Successore dell’Apostolo Pietro.
In continuità con il Cardinale Costantini, anche noi del Dicastero per l’Evangelizzazione abbiamo davvero a cuore tutto quello che riguarda i nostri fratelli e sorelle cinesi, e percepiamo che le loro vicende hanno qualcosa di importante da mostrare e da condividere con tutta la Chiesa universale.
Ci possono essere problemi, incomprensioni, incidenti, ma non c’è mai tiepidezza e indifferenza verso il cammino della Chiesa cattolica in Cina.
Oggi è con noi qui a Roma anche il fratello Vescovo Giuseppe Shen Bin. Chi ha seguito le vicende della Chiesa in Cina e la sua storia passata sa riconoscere cosa significhi tutto questo.
Rendiamo grazie al Signore, che ha custodito e ha abbracciato questo cammino anche nelle prove.
(Agenzia Fides 21/5/2024)


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