ASIA/MONGOLIA - Prematura scomparsa di un sacerdote coreano fidei donum, esempio di passione missionaria, umiltà e povertà

venerdì, 26 maggio 2023

Don Stefano Kim SeongHyeon

Ulaanbaatar (Agenzia Fides) - Ci sono missionari che lasciano una traccia indelebile sia nella comunità dove hanno svolto il servizio apostolico, sia in quella di origine, che li ha "partoriti alla fede" e li ha accompagnati nel cammino di formazione. E' questo il caso di Don Stefano Kim SeongHyeon, sacerdote del clero di Daejeon (diocesi in Corea del Sud), spentosi oggi, 26 maggio, a Ulaanbaatar, in Mongolia, paese dove ha speso quasi l’intera vita di sacerdote, dal momento dell'ordinazione presbiterale. Nato nel 1968, Don Stefano ha conosciuto Cristo nella sua comunità e ascoltato la sua chiamata, divenendo sacerdote nel 1998. Ben presto si è manifestato in lui l'ardente desiderio di missione ad gentes e – abbandonando una situazione di vita che per i preti in Corea è normalmente di benessere e grande considerazione sociale – è partito come missionario fidei donum della diocesi di Daejeon in Mongolia nel 2000.
Così lo ricorda un suo confratello prete di Dajeon, don Agostino Han, oggi in servizio presso il Dicastero dell’Evangelizzazione: “Ho incontrato don Kim per la prima volta durante un'esperienza missionaria in Mongolia nel 2007, quando ero seminarista. Rimasi davvero colpito nel vedere don Kim vivere con tanta passione missionaria, umiltà e povertà. Vedevo in lui l'esempio di un autentico sacerdote missionario che si dedicava completamente a portare il Vangelo del Signore a un popolo che era ave subito l'ateismo imposto dallo stato per decenni”.
In quel periodo, don Stefano gestiva un piccolo Seminario nella sua parrocchia che forniva vitto e alloggio ai ragazzi mongoli, il luogo in cui cresceranno le vocazioni dei primi sacerdoti autoctoni. "In una società in cui la violenza domestica è comune, all'inizio ai ragazzi mongoli risultava difficile avvicinarsi a don Kim perché era un uomo adulto. Tuttavia, egli trattava i ragazzi mongoli con grande amore paterno ed essi rimanevano impressionati dalla sua gentilezza. Dopo aver sperimentato il suo amore e la sua pazienza, i ragazzi lo seguivano e lo consideravano come un vero padre. Rimasi commosso nel vedere tutto ciò", prosegue don Han.
Don Stefano Kim amava raccontare la sua esperienza missionaria: "Arrivato in Mongolia come missionario, non mancava di compiere opere di elemosina e carità verso i poveri. Rimase sorpreso nel constatare che i poveri sapevano distinguere se egli stava donando qualcosa di prezioso per lui oppure ciò che era il superfluo. La vera condivisione - diceva - non consiste nel dare ciò che avanza, ciò che è superfluo, bensì nel dare ai poveri quanto è prezioso per te, proprio come Dio ha mandato il suo unico Figlio nel mondo”.
Do Stefano aveva sempre il libro di Santa Teresa di Lisieux aperto sulla sua scrivania, continua fonte di ispirazione per la sua missione. "Riusciva a vivere la vita di un prete, nella difficile terra della Mongolia, senza trascurare la vita spirituale, accanto alle numerose e urgenti responsabilità pastorali e sociali”, nota don Agostino.
Il sacerdote era anche membro della associazione sacerdote dell’Istituto Prado, per la provincia coreana, composta da preti che si impegnano a mettersi a disposizione dei Vescovi per il servizio nelle parrocchie più povere. Nel 2019 fu invitato a partecipare a un ritiro dei sacerdoti del Prado, in occasione della Pasqua, a Fatima, in Portogallo. Lì potè condividere la sua esperienza missionaria che fu di esempio ed edificazione per tutti. Raccontò, ad esempio, che quando stava ancora imparando il mongolo, ebbe l'opportunità di fa un lungo viaggio in autobus. Un bambino sull'autobus mostrò interesse per lui e il prete rispose nel suo mongolo stentato. Allora il bambino, che fino a quel momento era stato silenzioso, si rese conto che era uno straniero che non parlava mongolo e continuò a parlare con lui, insegnandogli vari termini in lingua mongola. Più tardi, quando l'autobus arrivò a destinazione, diventarono amici. Questa esperienza gli fece capire che “Dio usa la debolezza, le nostre mancanze e la povertà per diffondere il Vangelo. L'importante è essere docili nelle sue mani”.
Da parroco, poi, notava che molti ragazzi della parrocchia si allontanavano dalla chiesa quando crescevano e si sposavano. Pertanto, un giorno decise di andare a far visita alla casa di uno di loro. Si accordò per incontrarlo, arrivò, ma il giovane non era ancora tornato dal lavoro. C'erano solo la moglie e un piccolo bambino. Il giovane arrivò a casa solo dopo le 21, in ritardo, si scusò, si lavò il viso sudato e si sedette di fronte a lui. Vedendo il suo viso stanco e provato, non riuscì a chiedergli di venire in chiesa. Così, tornando nella sua abitazione, riflettè a lungo su "cosa significa essere un missionario" e giunse a questa conclusione: "Per quanto io voglia essere come la gente locale e vivere poveramente come loro, ho sempre una canonica a cui posso tornare, una diocesi in cui posso tornare quando la vita diventa più dura, un ospedale in cui posso andare per le cure. Ma questo ragazzo oggi deve sudare e faticare tutto il giorno per sostentare e mantenere la sua famiglia e la sua casa".
Con questo pensiero, don Stefano, ottenuta l’approvazione del Vescovo, lasciò la parrocchia e scelse una vita itinerante nelle immense praterie della Mongolia. Lì visse per alcuni anni in una "gher", la tenda tradizionale mongola, e insegnò il coreano ai giovani studenti di una scuola. Successivamente, chiamato dal nuovo Vescovo, tornò a Ulaanbaatar per servire come Vicario delegato della Prefettura Apostolica. Tuttavia, spesso amava dire: "Quando questa missione sarà finita, tornerò nelle praterie".
Conclude don Agostino: "È stata una gioia per me conoscerlo e condividerne la spiritualità. Ora p. Stefano intercede presso il Padre per la piccola Chiesa della Mongolia".
(PA) (Agenzia Fides 26/05/2023)

Il missionario coreano in abiti tradizionali mongoli

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