La questione delle armi in Africa

sabato, 24 luglio 2004

Il dramma del Darfur ripropone la questione della diffusione delle armi in Africa. Per questo motivo abbiamo deciso di anticipare la parte relativa all’Africa di un dossier dedicato al traffico di armamenti nel mondo.
Nel Darfur, come in tante altre guerre africane, sono le armi leggere le vere armi di distruzioni di massa. In questa poverissima regione del Sudan occidentale, uomini a cavallo, discendenti di predoni di altri tempi, imperversano armati di Kalashnikov, uccidendo la popolazione e bruciando le loro povere abitazioni. Sono le famigerate milizie filo-governative Janjaweed, la cui brutalità ha spinto il Congresso statunitense ad approvare una risoluzione nella quale si dichiara che in Darfur è in atto un genocidio. Dal cielo l’aviazione di Khartoum spiana loro la strada con bombardamenti indiscriminati a base di bombe a frammentazione e al Napalm.
La comunità internazionale sta discutendo l’approvazione di un embargo internazionale delle armi nei confronti dei Janjaweed, ma stranamente non nei confronti del governo sudanese, che arma e i dirige queste milizie. Forse perché alcuni membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno siglato, o stanno per farlo, lucrosi contratti di armamento con il Sudan? Non è forse vero che alcuni paesi si apprestano a vendere decine di aerei da combattimento, centinaia di carri armati e di veicoli corazzati all’esercito sudanese?
L’Africa continua a essere un mercato, sia pure povero e apparentemente marginale, del mercato globale delle armi. Come è scritto nel dossier di Fides, nel continente si riciclano spesso armi vecchie, da quelle provenienti dagli arsenali in corso di rinnovamento dagli eserciti occidentali e dell’Europa dell’Est, a quelle degli ex combattenti dei conflitti africani conclusi di recente. Eppure c’è chi non disdegna di piazzare sul mercato africano sistemi di nuova produzione.
Vittime di questo commercio sono i civili, donne e bambini in particolare. Tra questi vi sono anche missionari, religiosi e laici. Fedeli al Vangelo, i missionari rimangono accanto ai più poveri anche e soprattutto nei momenti più drammatici, rappresentando spesso l’unico punto di riferimento e di conforto per persone private di tutto, anche della speranza. Proprio per questo i missionari sono un bersaglio privilegiato quando si vuole annientare una popolazione. Questi operatori di pace, donne e uomini, armati solo dalla fede, continuano dall’Africa dimenticata a denunciare i mali del traffico di armi.
Le ragioni di questo dossier sono rappresentate nell’ultimo paragrafo: “Un disarmo possibile”. L’Africa è un continente dove la pace potrebbe diventare una realtà.


Il quadro di riferimento geopolitico

La fine della guerra fredda non ha visto la fine della conflittualità nel mondo. Alle guerre ideologiche, alimentate dal confronto tra i due blocchi, si sono sostituite quelle etniche e per il controllo di risorse vitali.
In Africa le alleanze della guerra fredda non avevano portato alla costituzioni di organizzazioni multilaterali come la Nato. Gli apparati militari africani, quindi, sono stati costituti e alimentati su base bilaterale, a cura in primo luogo delle ex potenza colonizzatrici e in via subordinata di Usa e Urss. Il rilancio del confronto tra i due blocchi a partire dalla seconda metà degli anni’70 ha visto attribuire all’Africa subsahariana un ruolo centrale. Le due superpotenze aumentarono dunque il loro coinvolgimento nelle vicende africane direttamente o più spesso attraverso alleati (Cuba per l’Urss, Sud Africa, Marocco e Israele da parte Usa). La potenza ex coloniale più presente nel continente era la Francia, che pur nel contesto della politica occidentale di contenimento dell’Unione Sovietica, perseguiva obiettivi autonomi, di tipo neocoloniale. La politica francese si appoggiava su una presenza militare diretta, con basi e truppe dislocate in Senegal, Gibuti, Ciad, Gabon e Repubblica Centrafricana. Una delle conseguenze di questo scenario è l’imponente arsenale che i due blocchi hanno riversato in Africa e che è rimasto in loco. Arsenale costituito soprattutto da armi leggere che è andato ad alimentare le nuove guerre e una situazione di criminalità diffusa.
Superata la guerra fredda, i fattori che determinano i conflitti africani sono i seguenti: lo stato di incertezza nei processi di transizione anche all’interno di paesi che aspirano a una guida regionale come Nigeria, Sudafrica, Repubblica Democratica del Congo, Angola ed Etiopia; la mancanza di una strategia precisa da parte delle organizzazioni continentali e subregionali. Inoltre, la riduzione delle risorse a disposizione degli Stati africani genera fenomeni di erosione del consenso, ottenuto spesso con procedure ridistributive su base clientelare. I conflitti al di là delle motivazioni personalistiche, etniche, o di rivalità politica, hanno come oggetto l’occupazione dello Stato e quindi il controllo della rendita e degli aiuti finanziari esterni.
In questo contesto gli Stati Uniti e le istituzioni finanziarie internazionali hanno appoggiato i processi di cambiamento di leadership avvenuti negli anni’90. I nuovi capi ben disposti verso il “mercato” e i processi di globalizzazione, hanno sostituito la vecchia guardia: personaggi come Mobutu, utili ai tempi della guerra fredda, ma visti come un ostacolo al nuovo ordine economico. L’ascesa di questa nuova leadership è avvenuta spesso manu militari (Uganda, Rwanda, Etiopia, Eritrea, Congo) e suoi principali rappresentati provengono dai ranghi dell’esercito. La nuova strategia convergente e allo stesso tempo concorrenziale americana e francese è quella di appoggiarsi a questa nuova classe dirigente per il controllo dell’area.
A livello militare la rivalità franco-americana ha dato vita all’allestimento, per vie separate, di forze armate e di intervento adatte alla geopolitica africana. Nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso, gli Stati Uniti hanno sponsorizzato l’African Crisis Response Iniziative (ACRI) con l’obiettivo di creare una forza interafricana di 10mila uomini. Il fine dell’Acri è il mantenimento della pace sotto l’egida dell’Unione Africana , ma l’armamento e l’addestramento saranno forniti dagli Usa e da alcuni paesi europei. Nonostante le diffidenze di Sudafrica, Kenya ed Egitto, il programma ha fatto progressi. Uganda ed Etiopia si sono dichiarati disponibili a partecipare, e due paesi dell’area francofona (Mali, Senegal) più uno anglofilo dell’Africa occidentale (Ghana) hanno espresso interesse all’iniziativa Usa. I paesi chiave attorno ai quali ruota la strategia di Washington sono Sudafrica, Nigeria, Kenya e, una volta raggiunta la pace con l’Eritrea, Etiopia, mentre in nord Africa si guarda con vivo interesse all’Algeria. Dopo gli attentati dell’11 settembre gli Stati Uniti guardano con sempre maggiore preoccupazione il radicamento di organizzazioni estremiste islamiche in Africa. Per questo motivo Washington ha deciso di promuovere nuove iniziative per rafforzare la capacità antiterrorismo di diversi eserciti africani. La Pan-Sahel Iniziative, in particolare, mira a incrementare la collaborazione dei militari americani con una seria di paesi della fascia del Sahel (Mali, Mauritania, Algeria, Ciad, Niger, Senegal).
La Francia preferisce parlare di Capacità africana di reagire alle crisi (CARC) o di Rafforzamento della capacità africana di mantenimento della pace (RECAMP). I piani di Parigi confidano in misura maggiore rispetto a quelli di Washington sull’intervento dell’ONU, dell’Unione Africana e delle organizzazioni regionali. La forza africana sponsorizzata dalla Francia non dovrebbe essere autoreferenziale come quella voluta da Washington. E invece di un’unica forza, come quella americana, i piani francesi si stanno orientando verso la formazione di centri subregionali complementari- con l’allestimento di esercitazioni congiunte e preposizionamento di materiali- che sarebbero chiamati a collaborare in casi di urgenza. La strategia francese si appoggia su un dispositivo militare ridotto rispetto a qualche tempo addietro, così ripartito: Gibuti (3300 uomini), Senegal (1300), Ciad (850), Costa d’Avorio (4000) e Gabon (600) .
La rivalità tra Parigi e Washington, così, contribuisce all’aumento del commercio delle armi in Africa. Se da una parte entrambe le potenze hanno interesse a circoscrivere le aree di instabilità per non mettere a repentaglio le loro posizioni, dall’altra sono tentate di acquisire nuovi clienti con l’elargizione di armi e assistenza militare a governi, apparati paralleli e a gruppi ribelli .
I dati dell’annuario 2000 dell’Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca della pace (Sipri Yearbook 2000) confermano questa tendenza. Secondo il Sipri le spese militari africane sono in ascesa a partire dal 1997. Nel 1999 la spesa militare è aumentata del 22% rispetto al 1996, anno di massima contrazione delle uscite militari. Queste cifre sono solo indicative dato che non sono disponibili i dati di alcuni paesi, come l’Angola.
In una situazione di assenza o di forte indebolimento dello stato, gli attori (pubblici e privati) presenti nei teatri bellici africani sono diversi: truppe regolari, gruppi di guerriglia o paramilitari, unità di autodifesa, mercenari stranieri e truppe regolari straniere. Il finanziamento dello sforzo bellico è riconducibile alle seguenti fonti : trasferimento di beni a favore delle unità combattenti (furti, saccheggi, presa di ostaggi e controllo dei mercati); tasse o tangenti sulla produzione di beni primari e varie forme di commercio illegali (si pensi ai traffici clandestini di diamanti o a quello della droga che anche in Africa sta prendendo piede); assistenza esterna, come rimesse dei rifugiati all’estero, assistenza diretta dalla diaspora che vive all’estero o aiuti da parte di governi o multinazionali stranieri; diversione dell’assistenza umanitaria a favore delle unità combattenti (esercito o guerriglia).
La disponibilità di armamenti è assicurata da almeno tre fattori:
1) La smobilitazione degli arsenali dei paesi Nato e del Patto di Varsavia, a seguito della fine della guerra fredda. Gli enormi stock di armi così creati, dato l’alto costo della loro distruzione, vengono immessi sul mercato spesso tramite operatori commerciali senza scrupoli. In particolare i paesi dell’ex Patto di Varsavia, alla disperata ricerca di valuta pregiata, sono fra i più attivi nel foraggiare i flussi diretti verso l’Africa . Dal punto di vista tecnico le armi di tipo sovietico sono ben conosciute dagli africani, dato che anche guerriglie filoccidentali come l’Unita angolana erano armate, tramite canali paralleli, con sistemi orientali.
2) La smobilitazione di apparati bellici alla fine di guerre locali, non ha visto la distruzione degli arsenali esistenti, ma la loro collocazione sul mercato a beneficio di nuove guerre o di gruppi criminali. Questo è accaduto in Africa (ad esempio il già ricordato Mozambico) e in Asia (per esempio in Cambogia).
3) Nuove produzioni sia da parte delle maggiori potenze (tra cui Israele collocato a torto da alcuni autori tra i produttori del terzo mondo), che hanno ristrutturato e modernizzato la propria industria militare negli anni’90, sia da parte di produttori del terzo mondo (Brasile, Egitto, le due Coree, Cina, Iran, Cile). Nell’Africa subsahariana il più grande produttore di armi è il Sudafrica che dispone di un’industria diversificata e sofisticata, nel cui capitale sono entrati in forze i colossi degli armamenti franco-tedeschi (EADS) e inglesi (BAE). Piccole produzioni di armi leggere e munizioni sono presenti nello Zimbabwe, in Uganda e in Nigeria.
Accanto al commercio delle armi ci sono le attività pudicamente definite “di consulenza militare”. Addestramento, inquadramento, fornitura di servizi logistici alle varie formazione presenti nei teatri bellici africani sono queste le “specialità” fornite da agenzie specializzate internazionali. La figura del mercenario si è evoluta. Accanto al “vecchio mercenario”, componente di bande raccogliticce costituite alla bisogna, si è affermata la figura del dipendente di vere e proprie multinazionali della “sicurezza” , cui persino l’ONU è intenzionata a ricorrere. Nel ramo sono presenti anche stati a economia socialista come Cuba e la Corea del Nord, che nei tardi anni ’90 hanno fornito truppe mercenarie la prima in Angola e Congo Brazzaville, e la seconda nella Repubblica Democratica del Congo
Sono presenti in Africa almeno 90 forze di sicurezza private di vario tipo . Nella sola Angola ve ne sono 80 perché il governo angolano richiede alle compagnie minerarie e petrolifere di provvedere alla propria sicurezza. Una delle più famose era la Executive Outcomes (EO) sudafricana, che prestava assistenza sotto forma di consiglieri militari, strategie di battaglia, addestramento di personale di terra e aereo, intervento diretto nei conflitti e protezione degli interessi minerari e petroliferi presenti nel teatro bellico. La società avrebbe cessato le proprie attività alla fine del 1999 . Il caso di EO rimane comunque emblematico poiché dello stesso gruppo facevano parte alcune società minerarie che si assicuravano i diritti di sfruttamento delle ricchezze dei paesi che richiedevano il loro intervento. Una di queste, Branch Energy, è stata rilevata da Diamondworks, una compagnia associata a Sandline, una società di mercenari britannica. Questo a dimostrazione del forte intreccio di interessi tra attività estrattive, commercio di armi e impiego dei mercenari in Africa, e non solo.
Gli Stati Uniti, ma anche la Gran Bretagna e, in misura forse minore, la Francia hanno integrato nella loro strategia militare l’uso delle società di mercenari. La Defence Intelligence Agency (DIA) il servizio segreto del Pentagono ha avviato contatti con le principali agenzie del settore per studiare il loro impiego nell’ambito della geopolitica africana degli Usa.
Questo in una logica che vede l’occidente affidare la gestione delle proprie attività militari in Africa (ma anche in America Latina) ad attori locali (armati e addestrati tramite programmi come Acri e Recami) e a società private, in modo da evitare rischi per il proprio personale militare .
Quindi, accanto all’armamento e all’addestramento fornito da Stato a Stato, diventano sempre più importanti le forniture belliche tra entità private. E le considerazioni di ordine geopolitico sono spesso messe in secondo piano da quelle di carattere squisitamente commerciale. Accade così che la compagnia petrolifera ELF finanzi entrambe le parti del conflitto del Congo Brazzaville pur di mantenere le concessioni petrolifere nel Paese .
La privatizzazione della guerra ha anche risvolti paradossali in Africa, come evidenziato dal progressivo svuotamento delle capacità militari degli eserciti regolari africani. Temendo colpi di stato e rivolte militari, molti Presidenti africani (in diversi casi andati al potere proprio grazie a golpe militari) hanno trasformato le unità regolari in “eserciti da parata”, creando allo stesso tempo, ben armate guardie pretoriane e milizie private per la propria sicurezza. Questi corpi sono formati da uomini fedeli appartenenti alla stessa etnia dell’uomo forte del paese. È quindi chiaro che in questo modo si minano le fondamenta dello stato a favore di entità sub-statali (l’etnia, la tribù, ecc..) o extra-statali ( i network criminali, le multinazionali minerarie e agricole, ecc…).
Il traffico di diamanti è un altro esempio di questo tipo. La costituzione di network per la commercializzazione dei diamanti prodotti nelle zone controllati dai ribelli nella Sierra Leone, vede accanto alla rete di trafficanti di diamanti, i centri di compravendita degli stessi (in Belgio, Gran Bretagna, Svizzera, Sudafrica, India, Usa e Israele), i paesi vicini (come la Liberia) che alimentano la guerriglia per lucrare su questo traffico, i fornitori di armi (spesso con basi in paradisi fiscali come le isole Cayman o gli Emirati Arabi Uniti), compagnie aeree compiacenti che le trasportano a destinazione, e paesi (come il Burkina Faso) che ne permettono il transito nei loro porti e aeroporti o forniscono gli end user certificate .
Nei traffici di diamanti africani sono spesso coinvolti personaggi mediorientali e accanto alle motivazioni commerciali alcune zone dell’Africa sono diventate zone di scontro “per procura” tra le potenze mediorientali. Il governo del Sudan, per esempio è appoggiato dall’Iran, mentre la guerriglia del SPLA (Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) riceve aiuti da Eritrea e Uganda, .
Il Sudan, inoltre, riceve aiuti e finanziamenti per il suo sforzo bellico da compagnie petrolifere asiatiche: la competizione per le risorse vitali coinvolge non solo gli occidentali ma anche le economie asiatiche. L’Africa subsahariana rischia quindi di divenire sempre più terreno di conquista dell’economie più forti.
Gli interessi della cosiddetta new economy si intrecciano con quella della old economy. Il Coltan minerale strategico per l’industria dei cellulari, viene estratto in una zona del Congo sotto il controllo dei ribelli appoggiata da Uganda e Rwanda. Gli acquirenti sono alcune tra le più importanti multinazionali occidentali che acquistano il minerale tramite società situate in Uganda e in Kazakistan .


La produzione militare in Africa

In Africa, la diffusione di armi leggere è una ben nota piaga, che contribuisce a all’instabilità di ampie zone del continente. Oltre alle armi provenienti da altre parti del mondo (soprattutto, ma non esclusivamente, dall’Europa dell’Est), si sta affermano una produzione locale che potrebbe avere nel tempo sviluppi inquietanti. Tra i paesi africani produttori di armi vi sono Sudafrica, Zimbabwe, Nigeria, Namibia, Uganda, Kenya e Tanzania, ai quali si aggiunge l’Egitto.
Il maggiore produttore è il Sudafrica, che ha ereditato dal regime dell’apartheid un’industria militare sofisticata e diversificata. Attualmente, in Sudafrica vi sono circa 700 aziende che operano nel settore militare e che impiegano 22.500 addetti (alla fine degli anni ’80 erano 160.000). La maggior parte sono piccole e medie industrie, mentre il colosso statale Denel controlla le aziende più significative. Per quel che riguarda le armi leggere, i maggiori produttori sono: Vektor (pistole, fucili d’assalto, mitragliatrici, mortai, cannoni automatici da 20 mm); MGL Milkor Marketing (Pty) Ltd (lanciagranate automatici); Mechem (fucili antimateriali da 12,7 e 20 mm); ARAM (Pty) Ltd (mitragliatrici pesanti da 12,7 mm); New Generation Ammunition (munizione di piccole e grosso calibro), LIW (cannoncini da 30 e 35 mm); Truvelo Armoury Division ( pistole, fucili e parti di armi leggere); Pretoria Metal Pressings (PMP) (munizioni 12.7 x 99mm; 12.7 x 76mm; 9 x 19mm; 7.62 x 51mm; 5.56 x 45mm).
Secondo i dati ufficiali il paese esporta prodotti bellici in 61 paesi diversi, anche se le aree privilegiate sono il Medio Oriente e l’Africa. Il maggior cliente è l’Algeria, nonostante questo paese sia in preda ad una guerra civile nella quale le forze di sicurezza sono accusate di atrocità e massacri contro i civili. I clienti più importanti sono: Algeria, India, Repubblica Popolare Cinese, Emirati Arabi Uniti, Taiwan, Singapore, Thailandia, Camerun, Cile, Colombia, Kuwait, Oman, Perù, Swaziland, Congo Brazzaville, Botswana, Uganda, Rwanda, Tunisia, Costa d'Avorio, Kenya, Zambia, Mozambico e Messico.
Nel 2001, il 32% delle esportazioni sudafricane sono state assorbite dall’Africa. L’Algeria da sola rappresenta il 28% di tutte le vendite in Africa. Al paese nordafricano sono stati venduti, tra l’altro, UAV (aerei senza pilota) da ricognizione e un pacchetto di aggiornamento della flotta di elicotteri cannoniera Mil Mi24 Hind di origine sovietica. Il resto delle esportazioni è così suddiviso: 15% Medio Oriente; 16% Asia del Sud; 15% resto dell’Asia; 16% Europa; 5% Americhe e 1% Nazioni Unite (equipaggiamenti per i Caschi Blu).
Non tutti i paesi possono ricevere gli stessi sistemi prodotti dalle industrie sudafricane. La legge sull’esportazione degli armamenti ha individuato 4 categorie di mezzi che sono soggetti a un diverso grado di controllo per la loro esportazione:
Category A: Sensitive Major Significant Equipment (SMSE) - ovvero ogni arma che può provocare un alto numero di vittime e alti danni alle strutture.
Category B: Sensitive Significant Equipment (SSE) - armi leggere.
Category C: Non-sensitive equipment (NSE) - sistemi usati nel supporto alle operazioni di combattimento senza una specifica capacità letale (esempio sistemi logistici e per le telecomunicazioni)
Category D: Non-lethal equipment (NLE) - mezzi difensivi come i sistemi di sminamento.
Quindi alcuni paesi possono acquistare solo sistemi delle ultime due categorie (non letali), come lo Zimbabwe al quale l’ultima fornitura risale al 2000 e riguardava solo sistemi della categoria D.
Anche lo Zimbabwe ha ereditato un’embrionale industria bellica dal precedente regime (quando il paese si chiamava ancora Rhodesia). Partendo da questa base nel 1984, è stata fondata la Zimbabwe Defence Industries (ZDI). Questa azienda produce armi leggere, munizioni e mine. Il Know how per la produzione di esplosivi e mortai è stato fornito dalla Francia, mentre la Cina ha costruito una fabbrica di munizioni per armi da fanteria. Tra i clienti dalla ZDI vi sono l’Angola (l’esercito governativo e i ribelli dell’UNITA), i ribelli sudanesi e la Repubblica Democratica del Congo. In Congo, dove le truppe di Mugabe sostengono il Presidente Kabila, in cambio delle forniture della ZDI, Harare è riuscita a ottenere la concessione del 37,5 % delle azione di Gecamines, l’azienda mineraria di stato del Congo. Lo Zimbabwe, infine, cerca nuovi partner per la produzione di armamenti. Prima della fine della guerra in Angola, erano in corso colloqui tra Luanda e Harare per la fondazione in Angola di una stabilimento comune per la realizzazione di armamenti. Con la fine della guerra, però, il governo angolano sembra aver perso interesse nell’impresa.
La ZDI produce armi leggere (in particolare copie del mitra israeliano UZI e di quello ceco CZ25) e soprattutto munizioni (dal 9 mm al 20 mm), proiettili di mortaio (60, 81 e 120 mm), granate antiuomo e anticarro. Tra i clienti ufficiali dello Zimbabwe vi sono Sudafrica, Malawi, Botswana, Tanzania e Zambia
Sempre nell’Africa orientale, anche l’Uganda dispone di una piccola industria bellica. In questo paese vi sono almeno tre fabbriche di armi. La più grande, Nakasongola Arms Factory, è di proprietà cinese (una joint venture tra il governo di Pechino e alcuni tecnici e imprenditori di origine cinese, nord coreana e sudafricana). Questo stabilimento si trova nella regione di Gulu (dove imperversa da anni il Lord' Resistance Liberation Army-LRA) e produce armi leggere e mine, fornita all’esercito del Burundi e all’ UNITA angolana. Vi è poi la Saracen che rifornisce l’esercito ugandese, e il cui proprietario è la Strategic Resources Corporation, una sigla dietro la quale si nasconde la famosa Executive Outcomes (EO), la Compagnia Militare Privata (PMC) sudafricana, che ha cessato ufficialmente le attività alla fine del 1999, ma che si sospetta agisca dietro sigle più discrete. Vi è infine Ottoman Engineering LTD, specializzata nella armi leggere. Uno dei clienti dell’industria ugandese è la Repubblica Democratica del Congo.
In Kenya, la Kenya Ordnance Factories Corporation produce munizioni per pistole e fucili d’assalto (20-60mila al giorno). La fabbrica è stata costruita con il concorso della FN belga ed è stata inaugurata nel 2000. Il governo del Kenya afferma che la sua produzione è destinata solo alle locali forze armate e che non intende concedere licenze di esportazione.
L’unico produttore bellico dell’Africa occidentale è la Nigeria. La Defence Industries Corporation of Nigeria (DICON) è stata creata nel 1964, con un’apposita legge, il Defence Industries Corporation of Nigeria Act Questa industria ha avuto un ruolo importante durante la guerra per la secessione del Biafra (1968-70). Affidata a manager stranieri, l’azienda fu dichiarata fallita nel 1972 e il suo direttore generale, un tedesco, fu espulso dal paese. La società ha continuato a funzionare in modo altalenante per circa 30 anni, sotto il regime dei militari. Alla fine degli anni ’90, il nuovo governo civile decise di rilanciare la produzione militare. A tal fine, è stato nominato un nuovo consiglio di amministrazione della DICON e sono stati avviati contatti con la Russia per il trasferimento di tecnologie.
L’azienda nigeriana impiega attualmente circa 700 persone nello stabilimento di Kaduna dove sono prodotte armi leggere e munizioni, mentre nella fabbrica di Bauchi sono realizzati veicoli corazzati leggeri. Ufficialmente le armi prodotte sono destinate solo per le necessità delle forze armate e di polizia nigeriane. Tra i materiali prodotti vi sono: Nigerian Rifle 1 Model 7.62 mm(NR 1 - 7.62 su licenza britannica-belga); Nigerian Pistol 1 - Model 9MM (NPI - 9mm); Sub-Machine Gun (PM 12S Calibre 9MM su licenza della Beretta italiana) DICON SG 1 - 86 Single Barrel Shot Gun; DICON M 36 Hand-Grenade; 7.62mm x 51 soft core (Ball) Cartridge 7.62mm X 51 Soft core (Ball); 7.62mm x 51 Blank Bulleted 9 x 19MM Parabellum Cartridge;9MM Blank Star; 12 Bore Shot - Gun Cartridge.
In Nord Africa, il maggior produttore di armamenti è l’Egitto. Questo paese esporta anche nell’Africa sub-sahariana. Nel 1992, 2 anni prima del genocidio rwandese del 1994, venne firmato un contratto di acquisto di armi egiziane a favore dell’esercito rwandese. Il contratto, garantito finanziariamente da una banca francese, comprendeva mortai da 60 e 82 mm; 16mila proiettili di mortaio; alcuni obici da 122 mm con 3mila colpi; lanciarazzi; esplosivi al plastico; mine antiuomo e 3 milioni di proiettili di piccolo calibro .
Tra i produttori egiziani di armi leggere vi sono: Abu Kir Engineering Industries / Factory 10 (munizioni di piccolo calibro); Al-Ma'asara Company for Engineering Industries (MF 45) (munizioni di piccolo e grosso calibro); Arab International Optronic (AIO) S.A.E (sistemi di puntamento); Helwan Machine Tools Company / Factory 999 (mortai); Kaha Company for Chemical Industries (MF 270) (granate da fucile, bombe a mano); Maadi Company for Engineering Industries (pistole, fucili, mitragliatrici leggere e pesanti, lanciagranate; Sakr Factory for Developed Industries (razzi anticarro); Shoubra Company for Engineering Industries (MF 27) (munizioni).



L’eredità di morte dei conflitti terminati

Quando una guerra finisce, uno dei problemi da affrontare è il disarmo degli ex combattenti. Purtroppo nonostante gli sforzi compiuti dalla Nazioni Unite e da altre organizzazioni, in diverse occasioni non si è riusciti ad ottenere un disarmo totale. Uno dei più recenti esempi è il programma di Disarmo e Smobilitazioni in Liberia. La guerra civile tra i combattenti fedeli al deposto Presidente Charles Taylor e i guerriglieri del LURD (Liberiani Uniti per la Riconciliazione e la Democrazia) e del MODEL (Movimento per la Democrazia in Liberia) si è conclusa nell’agosto 2003. Il paese si trova di fronte al problema di disarmare oltre 85mila combattenti, 20mila dei quali sono bambini soldato (alcuni hanno meno di 9 anni).
Dopo una falsa partenza nel dicembre 2003 (vedi Fides 9 dicembre 2003), il programma di disarmo gestito dall’ONU è stato avviato il 15 aprile 2004. In cambio della partecipazione al programma di smobilitazione, i combattenti ricevono 300 dollari ( in due tranche, 150 dollari subito, e il resto 3 mesi dopo aver partecipato al programma di reinserimento nella società civile). Da notare che gli ex guerriglieri non hanno l’obbligo di presentarsi con la propria arma per consegnarla ai Caschi Blu dell’ONU. Si è così creata una situazione paradossale con la confinante Costa d’Avorio. Anche in questo paese, infatti, è stato avviato un processo di recupero delle armi dei guerriglieri delle “Forze Nuove”, che controllano le regioni del nord-ovest. In Costa d’Avorio, però gli ex guerriglieri devono consegnare le proprie armi, ma in cambio ricevono una somma più alta (900 dollari). Si è creato così un traffico di armi dalla Liberia alla Costa d’Avorio, come aveva denunciato anche la Chiesa Cattolica liberiana (vedi Fides 3 maggio 2004). I guerriglia liberiani infatti cercano di guadagnare due volte, partecipando al programma di disarmo nel proprio paese e a quello della Costa d’’Avorio. In quest’ultimo caso, i liberiani agiscono spacciandosi per combattenti ivoriani oppure vendendo armi ai guerriglieri della Costa d’Avorio in cambio di una percentuale dei 900 dollari di pagamento per la consegna dell’arma.
Il fatto che i guerriglieri liberiani possono partecipare al programma di smobilitazione senza consegnare le armi sta avendo conseguenze negative nella stessa Liberia. I guerriglieri inoltre tendono a riconsegnare armamenti vecchi o inutilizzabili, nascondendo gli equipaggiamenti migliori. Così, su 11mila combattenti registrati nella prima settimana del programma di smobilitazione, solo 8.500 armi sono state recuperate. Tenendo conto che i combattenti potevano possedere più di un’arma si tratta di un risultato piuttosto deludente e preoccupante (vedi anche Fides 10 luglio 2004). Anche dove il programma di disarmo ha ottenuto buoni risultati, vi sono motivi di preoccupazione. Nel Congo Brazzaville, per esempio, il programma promosso da IOM e UNDP avviato nel luglio 2000 ha permesso di recuperare in meno di un anno circa il 28 % delle 57mila armi leggere in circolazione nel paese.
Le armi in circolazione vanno così ad alimentare circuiti illegali che riforniscono la delinquenza e guerriglie di paesi vicini. L’eredità di morte costituita da queste armi continua dunque a rappresentare una fonte di destabilizzazione per intere regioni dell’Africa. Così, l’arma preferita dal banditismo africano non è la pistola, ma il Kalashnikov (AK47), riciclato da ex combattenti. I bracconieri che imperversano nel Parco Nazionale Kafue nello Zambia settentrionale, per esempio, utilizzano Kalashnikov importati nel paese da profughi angolani. Nel nord Camerun, più della metà dei banditi di strada sono ex combattenti provenienti da Repubblica Centrafricana, Ciad e Nigeria.
A causa della relativa diffusione di armi leggere nel continente, il 18% degli omicidi e suicidi con armi da fuoco registrati in un anno in tutto il mondo, sono avvenuti in Africa. Nel continente, le armi da guerra sono usate nel 35% degli omicidi, nel 13% delle rapine, e nel 2% degli stupri. Il paese maggiormente colpito dalla violenza armata è il Sudafrica, dove ogni anno avvengono 30 omicidi con armi da fuoco ogni 100mila abitanti, un dato che colloca il paese al secondo posto a livello mondiale, subito la Colombia.

Un disarmo possibile

Secondo alcuni esperti, tuttavia la situazione africana è tragica ma non disperata. Le stime sul numero delle armi leggere in circolazione nell’Africa sub-sahariana sono state di recente riviste al ribasso: da una stima iniziale di 100 milioni di pezzi si è passati a 30 milioni (il 5% di tutte le armi leggere in circolazione nel mondo). Si tratta di una cifra ancora consistente ma che non rende impossibile l’attuazione di programmi di disarmo. Va sottolineato, però che l’80% circa di queste armi sono in mano a civili, contribuendo all’instabilità di diverse zone dell’Africa.
Dall’altro canto, questo dato è preoccupate perché significa che anche con relativamente poche armi, un numero ridotto di combattenti è in grado di compromettere la vita di interi paesi.
Questa situazione può essere riscontrata nell’Africa occidentale, dove le guerre civili in Liberia e Sierra Leone hanno messo in ginocchio lo stato e distrutto il tessuto economico e sociale delle due nazioni. Si calcola che negli anni ’90 del secolo scorso, all’apice della violenza nella regione, il totale degli insorti fosse di 47mila combattenti con circa 60-80mila armi. Tenendo conto delle armi acquistate per rimpiazzare quelle distrutte, perdute o rubate, in 10 anni, la regione ha assorbito non più di 250mila armi.
La presenza di armi nella regione ha determinato flussi illegali diretti anche verso paesi considerati relativamente stabili, come il Ghana dove, secondo dati ufficiali, vi sono oltre 40mila armi al di fuori del controllo dello Stato. In Nigeria, paese attraversato da tensioni etniche-religiose che sovente sfociano in atti violenti, vi sarebbero almeno un milione di armi detenute illegalmente.
Bisogna tenere conto che quando si è in presenza di interessi economici e strategici quali il controllo di risorse come il petrolio, non vi sono problemi per i contendenti locali a reperire armamenti. È il caso delle tre guerre civili che hanno sconvolto il Congo Brazzaville nel 1993, 1997 e 1998-99. Le diverse milizie che si sono combattute hanno ricevuto un flusso costante di forniture belliche. Delle 74mila armi leggere distribuite alle forze combattenti congolesi, 24.500 provenivano dagli arsenali delle forze di sicurezza, e ben 49.500 sono state importate. Tra i paesi che hanno venduto armi alle diverse milizie congolesi vi sono Israele, Sudafrica, Cina, Bulgaria, Russia. Altre forniture sono passate attraverso Angola, Repubblica Democratica del Congo, Gabon e Zimbabwe. Il Congo Brazzaville ha il triste primato di essere il primo paese nel quale un attore non statale, la milizia Cobra, è entrato in possesso dei micidiali razzi termobarici russi RPO-A Shmel. Si tratta di razzi impiegati dalle forze sovietiche in Afghanistan e da quelle russe in Cecenia che utilizzano una miscela aria-combustibile per creare un’esplosione che brucia l’ossigeno nell’area intorno al bersaglio. Si produce allora una forte e improvvisa decompressione che rade al suolo gli edifici circostanti e schiaccia i polmoni nella cassa toracica.
I circuiti criminali internazionali sono capaci di rifornire gli arsenali della guerriglia e quindi anche del terrorismo di strumenti di morte sofisticati. (L.M.) (Agenzia Fides 24/7/2004 righe 404 parole 5141)


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