VATICANO - “Vi fu detto, ma io vi dico…” - intervento del prof. Michele Loconsole - Quale rapporto tra Antico e Nuovo Testamento ?

venerdì, 24 ottobre 2008

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Una importante questione circa il rapporto tra ebrei e cristiani è senza dubbio la comprensione della giusta relazione tra i testi sacri degli israeliti o dei giudei e quelli contenuti nel canone biblico-cattolico. È infatti noto che mentre gli ebrei chiamano la loro Sacra Scrittura il “Tanàk”, acronimo di Torà, Neviìm e Ketuvìm, ossia Legge, Profeti e Scritti storici, i cristiani chiamano Bibbia l’insieme degli scritti veterotestamentari e quelli neotestamentari.
Tralasciando il complesso problema della quantità dei scritti israelitici che formano il Tanàk che, come è altrettanto noto, sono di numero inferiore a quelli veterotestamentari contenuti nella Bibbia cristiana, è mio interesse soffermarmi sulle relazioni esistenti tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
In primo luogo è bene affermare che i due Testamenti riguardano l’unità della rivelazione biblica e documentano l’unico disegno divino. Ogni evento riportato nella Bibbia va considerato nella totalità della sua storia, dalla creazione alla fine dei tempi, dalla Genesi all’Apocalisse. La rivelazione biblica riguarda infatti tutto il genere umano, e in particolare i credenti.
Quando si parla dell’“elezione di Israele”, solo per fare un esempio, il senso di tale scelta da parte di Dio lo si comprende alla luce dell’adempimento finale (Rm 9-11), come l’elezione di Gesù Cristo diventa chiara in riferimento all’annuncio e alla promessa (Eb 4,1-11). Anche se sono accadimenti che riguardano un solo popolo, in questo casi di Israele, nella visione di Dio sono destinati ad assumere una portata esemplare e universale. Sono cioè avvenimenti che hanno interessato gli ebrei, ma che in definitiva riguardano tutti noi, attraversando così i secoli e le nazioni.
Se il piano divino è uno, bisogna comprendere, quindi, l’autentico rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. La Chiesa, apostolico-primitiva (1Cor 10,11; Eb 10,1) e patristico-medievale, ha guardato a questo fecondo rapporto attraverso la categoria della “tipologia”, evidenziando il valore fondamentale dell’Antico Testamento ma declinandolo nella visione cristiana. Nell’Antico Testamento viene presentato e annunciato il Nuovo, così che Cristo diviene la “chiave” della Scritture: “Quella roccia era il Cristo” (1Cor 10,4). Sia nei Padri della chiesa che nella liturgia troviamo numerose testimonianze circa questa particolare impostazione, anche se in non pochi casi, e non soltanto dagli ebrei, è stata percepita con disagio. L’eresia marcioniana, per esempio, è stata ferocemente condannata dalla Chiesa antica come dottrina dualista.
Ma questa speciale lettura cristiana – di contestualizzare tutto alla luce dell’avvenimento di Cristo morto e risorto - coincide con quella ebraica? Certamente no. Tuttavia nulla impedisce ai cristiani di usare con discernimento le Antiche Scritture israelitiche per comprendere le proprie. Essa, infatti, manifesta ai cristiani le insondabili ricchezze della rivelazione veterotestamentaria, il suo contenuto inesauribile e il mistero che lo pervade. Mistero che il Nuovo Testamento non fa altro che riprendere e chiarire ulteriormente (Mc 19, 29-31). È lo stesso Nuovo Testamento che richiede di essere letto e spiegato alla luce dell’Antico, così come accadeva durante la primitiva catechesi cristiana (1Cor 5,6-8; 10, 1-11).
Come la lettura tipologica dell’Antico Testamento rimanda al Nuovo: “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28), così la Chiesa, già realizzata in Cristo, attende la sua perfezione definitiva come corpo di Cristo (Ef 4, 12-13). È per questo motivo che la vocazione dei patriarchi e l’esodo dall’Egitto non perdono la loro importanza e il loro valore nel piano salvifico di Dio, per il fatto che esse sono al tempo stesso delle tappe intermedie (NA, 4).
Anche l’escatologia trae beneficio dalla lettura tipologica dell’Antico Testamento: entrambi, ebrei e cristiani, attendono la venuta o il ritorno del Messia. Se si è ancora divisi sulla persona del Messia, certamente questo punto costituisce un momento di convergenza tra le due fedi abramitiche. Ebrei e cristiani fondano infatti la loro fede sulla stessa promessa fatta ad Abramo (Gn 12,1-3; Eb 6,13-18).
Uditori dello stesso Dio che ha parlato, ascoltatori della stessa Parola, è bene che ebrei e cristiani rendano unanime testimonianza di una stessa memoria e di una comune speranza verso colui che è il Signore della storia. Insieme devono responsabilmente preparare il mondo alla venuta del Messia, testimoniando la giustizia sociale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana e la riconciliazione universale. Non quindi un semplice dialogo tra le due fedi, ma una fattiva collaborazione per il bene comune, frutto della vera comprensione del fecondo e inesauribile rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. (Michele Loconsole) (Agenzia Fides 24/10/2008)


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