VATICANO - “Vi fu detto, ma io vi dico…” - un intervento del prof. Michele Loconsole su: la “discendenza” di Abramo e i figli della promessa

venerdì, 21 dicembre 2007

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Il dialogo ebraico-cristiano, alla luce del Concilio Vaticano II, e soprattutto all’indomani della visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma e al Muro del pianto a Gerusalemme, ha fatto significativi passi in avanti. Confronto che sta continuando anche sotto il pontificato di Benedetto XVI, tra incontri, discorsi ufficiali, encicliche e pubblicazioni private, interventi mirati a confermare la reciproca stima tra la Chiesa di Cristo e i cosiddetti fratelli maggiori, gli ebrei.
Questo, però, non toglie che non pochi aspetti rimangono ancora irrisolti. Per esempio la questione se i giudei possono salvarsi dopo la venuta di Cristo. Ossia, se i discendenti di Mosè possano conseguire la salvezza dopo l’evento dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Per i cristiani realizzatasi nella nascita di Gesù di Nazaret: fatto storico divenuto memoria liturgica, all’origine di quell’evento che chiamiamo “Natale”.
Il tema in questione, come è del tutto evidente, si presenta nel contempo complesso e delicato; la trattazione ha bisogno di scienza ma anche di prudenza, di verità e di carità, di ragione e di cuore (Spe Salvi 44.47). Nonché di numerose riflessioni, perché molteplici sono le angolazioni e le prospettive a cui guardare: verranno fornite di volta in volta in questa rubrica sul dialogo ebraico-cristiano, alla luce della Sacra Scrittura, del pensiero dei Padri e del Magistero della Chiesa.
E allora, quale Dio era adorato dagli israeliti prima che Gesù nascesse? O ancora più: quale Dio era adorato da Abramo?
Una prima risposta ci viene dall’ex fariseo Paolo, quando di fronte ad Agrippa disse: “Null’altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani” (At 26, 22b-23). L’Apostolo, come è noto, conosceva benissimo le Scritture ebraiche, e in quanto maestro della Legge dimostrò in quell’occasione che quanto i profeti avevano atteso, cioè il Messia sofferente, era la stessa persona di Gesù crocifisso. Identità che anche Stefano - che come Paolo era discepolo di rabbi Gamaliele - dichiara a conclusione del suo discorso ai giudei di Gerusalemme: “O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori…” (At 6,51-53).
Fin qui la Scrittura. Nel corso dei secoli, però, non poche chiarificazioni sono emerse nel confronto tra le due fedi abramitiche, anche rispetto a questo tema. Infatti, il Vaticano II ha chiaramente affermato che l’Alleanza di Dio con il popolo ebraico, in quanto suo popolo particolare, non è stata cancellata dalla venuta di Cristo e che la sua presenza permane tra questo popolo: “Gli ebrei a causa dei loro Padri, rimangono carissimi a Dio, la cui chiamata e i cui doni sono senza pentimento (NA,4). Ci si è poi accorti che sebbene i giudei attendono ancor il Messia, anche i cristiani attendono la seconda venuta di Cristo, ciò che viene definita teologicamente la Parousia, ossia il ritorno glorioso di Cristo che mette fine alla storia dell’umanità. Questa tensione escatologica, comune a giudei e cristiani, di fatto non separa, ma accomuna le due fedi, protese alla realizzazione del regno di Dio. L’attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi come loro viviamo in attesa.
Già l’allora Cardinale Ratzinger, nel documento del 2001, Rapporto fra Bibbia cristiana e tradizione ebraiche delle sacre scritture, della Pontificia Commissione Biblica, ebbe a dire, citando Paolo (Rm 4,1-25), che la fede di Abramo è fonte della giustificazione e base della sua paternità, che si estende a tutti coloro che credono, siano essi di origine ebraica o pagana. Dio, infatti, aveva fatto una promessa ad Abramo: “Sarai padre di una moltitudine di popoli (Gn 17,4). Paolo vede la realizzazione di questa promessa nell’adesione a Cristo di molti credenti di origine pagana (Rm 4,11.17-18). L’Apostolo distingue tra i “figli della carne” e i “figli della promessa” (Rm 9,8). Gli ebrei che aderiscono a Cristo sono al tempo stesso l’uno e l’altro. I credenti di origine pagana sono, invece, solo i figli della promessa. È così confermata e accentuata la portata universale della benedizione di Abramo e viene situata nell’ordine spirituale la vera posterità del patriarca. (2 -continua) (Agenzia Fides 21/12/2007; righe 52, parole 752)


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