ASIA - In aumento i "discorsi di odio" nel Sudest asiatico: un rapporto dell'Asia Centre

venerdì, 28 agosto 2020 social network   società   società civile   mass-media   minoranze etniche   minoranze religiose   diritti umani   violenza  

Bangkok (Agenzia Fides) - “Le parole sono pietre” scriveva lo scrittore italiano Carlo Levi. L'espressione è di grande attualità oggi in moltissimi discorsi, orazioni pubbliche, appelli che contengono spesso incitazioni all’odio. Le incitazioni diventano “pietre” e violenze nei confronti di minoranze etniche, religiose, culturali o di chi viene ritenuto semplicemente “nemico”. Il recente rapporto dell’Asia Centre dal titolo “Hate Speech in Southeast Asia - New Forms, Old Rules” (“Discorsi di odio nel Sudest asiatico – Nuove forme vecchie regole”), fa il punto sul “linguaggio dell’odio” nel Sudest asiatico. Nell’area, rileva il documento dell'Asia Centre - think-tank con sede a Bangkok che monitora lo spazio sociale e culturale nel Sudest asiatico - si registra un generale aumento dei "discorsi di odio", e il caso eclatante della minoranza rohingya, in Myanmar, mostra come l’odio etnico-religioso abbia trovato spesso ferventi paladini.
Nel rapporto pervenuto all’Agenzia Fides, l’Asia Centre spiega le sfide odierne del linguaggio dell'odio facendo riferimento agli antecedenti storici nell’area, in particolare nel caso di migrazioni forzate. Tali fenomeni, spiega il rapporto, hanno portato spesso a politiche di segregazione sociale.
Il rapporto distingue quattro forme principali del linguaggio dell’odio oggi: quella contro gruppi etnici e religiosi; contro cittadini stranieri, migranti lavoratori e rifugiati; contro ideologia politica e valori; contro le minoranze sessuali.
Gli stati della regione hanno introdotto una serie di misure per affrontare la questione: in termini di disposizioni legali, Malaysia, Myanmar, Filippine e Singapore – spiega il dossier – hanno rivisto o redatto disposizioni volte a garantire armonia sociale, razziale o religiosa. Altri governi dell’area utilizzano una gamma di leggi esistenti per criminalizzare l’incitamento all’odio mentre sono state introdotte politiche per mitigare le condizioni che potrebbero provocarlo: sono pratiche intraprese dai governi ma anche da organizzazioni della società civile per promuovere l’inclusione. Un parte importante riguarda la sorveglianza sui social network.
Come segno di impegno internazionale, ricorda il rapporto, gli stati dell'Associazione delle nazioni del Sudest Asiatico (Asean) (ad eccezione di Brunei, Malaysia, Myanmar), hanno firmato la Convenzione Internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination), trattato che impegna i firmatari all'eliminazione della discriminazione razziale e invita a promuovere la comprensione tra comunità, anche se in molti casi restano discrepanze tra leggi nazionali e obblighi del trattato.
Nel contempo la sorveglianza resta d’obbligo, soprattutto sull’applicazione delle norme: James Gomez e Khin Mai Aung hanno scritto sul magazine birmano “Irrawaddy” che le leggi nazionali contro il linguaggio dell’odio “sono state più volte utilizzate per colpire e imprigionare i critici del nazionalismo buddista e dell'estremismo religioso”. In Indonesia è invece noto il caso dell’avvocato e attivista cattolico Robertus Robet, docente di sociologia all’Università statale di Jakarta, arrestato il 7 marzo 2019 (in seguito liberato ma non prosciolto) per aver criticato l'esercito in un discorso ritenuto “incitamento all'odio”. In realtà Robet stava esercitando il diritto di critica sulla presenza di militari in servizio in ministeri e agenzie governative.
(PA) (Agenzia Fides 28/8/2020)


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