VATICANO - L’infezione da Hiv/Aids in eta’ pediatrica: il bambino con l'HIV diventa adolescente A cura del Dott. Castelli Gattinara, immunoinfettivologo dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Presidente della Società di Infettivologia Pediatrica Insegnare, con l’esempio, a prendersi cura dei bambini con AIDS: un progetto riuscito in Romania “Ionela ci è rimasta nel cuore”: Testimonianza di una bambina rumena

sabato, 3 aprile 2004

Città del Vaticano (Agenzia Fides) - La pandemia da HIV, il virus responsabile dell’AIDS, continua a diffondersi sempre più nel mondo: recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità calcolano che vi siano oltre 40 milioni di persone malate e che, durante lo scorso anno, siano morte almeno 2,6 milioni di persone e si siano infettati 5 milioni di adulti e 700.000 bambini.
La minore attenzione recentemente dedicata dai media al problema dell’HIV/AIDS in Italia è probabilmente determinata da una erronea percezione di ottimismo legata alla riduzione del numero dei morti per AIDS segnalato degli ultimi anni nel nostro paese. Questo dato, invece, non indica un reale calo del numero di persone colpite dall’infezione quanto, piuttosto, il rallentamento della progressione della malattia grazie alla disponibilità di farmaci sempre più potenti ed efficaci. Si calcola invece che il numero delle infezioni continui ad aumentare e che, in Italia, 10 persone contraggano per la prima volta il virus ogni giorno.
Il problema dell’HIV è dunque un problema sempre attuale anche in Italia. Fino al 2002, senza contare i soggetti sieropositivi, 52.000 persone si erano già ammalate di AIDS, cioè della forma conclamata e mortale della malattia, l’1,4% dei quali in età pediatrica. A questo proposito sembra interessante mettere in evidenza che, mentre nei primi anni ’90 in Italia i malati erano quasi tutti di nazionalità italiana, nel 2002 la percentuale di immigrati extracomunitari (Asia, Africa, America Latina, Europa dell’est) si attestava intorno al 15%. Questo dato è espressione di un fenomeno sempre più evidente, e in qualche modo anche preoccupante, di “migrazione” verso i paesi occidentali di soggetti sieropositivi che arrivano nei paesi “ricchi” con un progetto di permanenza definitiva finalizzato esclusivamente al poter disporre di quei farmaci, unica speranza di vita, inaccessibili nel paese di origine. Questo fenomeno non riguarda solo gli adulti, ma spesso interi nuclei familiari, quindi anche i bambini: ormai nei centri specializzati per la cura dell’AIDS in età pediatrica i nuovi infetti sono pressoché esclusivamente extracomunitari.
L’infezione da HIV/AIDS è una malattia che, come è noto, colpisce in maniera drammatica l’età pediatrica. In questa fascia di età la principale modalità di acquisizione dell’infezione è quella “verticale”, cioè il passaggio del virus, durante la gravidanza e/o il parto, da una madre infetta al proprio bambino. Occorre precisare che, sebbene tutti i neonati di madre HIV positiva sono “sieropositivi” alla nascita (per il passaggio attraverso la placenta degli anticorpi anti-HIV di origine materna), solo una piccola percentuale di essi ha anche acquisito l’infezione; cosicchè, nella maggior parte dei casi, la “sieropositività” presente alla nascita scompare rapidamente nei primi mesi di vita. Questi bambini, che oggi rappresentano nel nostro paese la stragrande maggioranza, sono assolutamente normali perchè non sono mai entrati in contatto con il virus.
I progressi scientifici, e soprattutto la disponibilità di terapie efficaci nei confronti dell'HIV, hanno permesso di ottenere una drastica riduzione della trasmissione madre-figlio del virus che, da percentuali di circa il 13-18%, arriva oggi a percentuali inferiori all'1%. I primi risultati incoraggianti furono ottenuti dallo studio ACTG 076 che, nel 1994, dimostrò che il trattamento delle donne gravide e dei neonati con AZT riduceva di circa il 70 % il tasso di trasmissione del virus. In seguito numerosi studi hanno confermato l'efficacia dei farmaci antiretrovirali in gravidanza ed i successi della terapia sono stati ulteriormente migliorati dall’adozione di altre misure preventive, quali l’esecuzione del taglio cesareo, ma soprattutto dall'allattamento artificiale.
Mettendo in atto tutte queste misure di prevenzione, cosa che avviene pressoché sempre in occidente, la percentuale di trasmissione dell’infezione dalla madre al figlio si è ridotta oggi a livelli inferiori all’1%, e ciò, insieme alla maggiore aspettativa di vita e al miglioramento della qualità della vita dei soggetti sieropositivi, ha determinato, negli ultimi anni, un incremento delle gravidanze anche tra le donne sieropositive.
Un aspetto interessante riguarda proprio l’andamento delle nascite da donne HIV positive. Nei momenti drammatici di alta mortalità per l'AIDS negli adulti e nei bambini la natalità nelle gravide sieropositive si era progressivamente ridotta, per poi evidenziare una forte inversione di tendenza negli ultimi anni, con una netta riduzione dell'abortività e la ripresa di una natalità superiore alla media. Differenti studi hanno dimostrato che il più recente incremento del numero di nascite da donne HIV positive è principalmente determinato dall’introduzione, negli adulti, delle terapie antiretrovirali di combinazione, la cosiddetta HAART (Highly Active Antiretroviral Treatment), che hanno favorito un grande miglioramento della qualità e delle aspettative di vita nelle madri e ridotto a livelli minimi la trasmissione dell'HIV ai figli.
Purtroppo tutto ciò è vero solo per la piccola parte ricca del mondo e non riguarda invece i paesi in via di sviluppo, dove l’AIDS costituisce spesso la principale causa di morte, ma dove non è possibile attuare interventi adeguati per prevenire la trasmissione del virus, tanto che l’infezione assume, anche in età pediatrica, proporzioni drammatiche: stime dell’OMS hanno calcolato che nello scorso anno si siano infettati circa 1.700 bambini ogni giorno!
Per quanto riguarda più in particolare la situazione italiana, un quadro descrittivo molto chiaro sull’infezione da HIV nei bambini ci viene fornito dai dati raccolti dal “Registro Italiano per l’Infezione da HIV in età Pediatrica”, al quale sono stati segnalati, fino ad oggi, oltre 6.300 bambini nati da madre HIV positiva, di cui circa 1.300 infetti. Si tratta di bambini che, all’inizio dell’epidemia, erano quasi esclusivamente figli di madre tossicodipendente, quindi, nella maggior parte dei casi, appartenenti a definite categorie sociali, caratterizzate, oltre che dai problemi specifici di malattia e “morte” propri dell’AIDS, anche da una serie di disagi di carattere sociale, culturale ed economico. Negli anni successivi, con il diffondersi della trasmissione del virus per via eterosessuale, quindi alla categorie cosiddette non a rischio, il problema dell’HIV si è diffuso alle più diverse tipologie di famiglie, appartenenti ai più diversi livelli economici, sociali e culturali, così che le problematiche di emarginazione e di esclusione, prevalenti nei primi anni dell’epidemia, sembrano essere sempre meno evidenti.
Per i pediatri e gli infettivologi che si occupano di infezione da HIV nei bambini esistono dunque differenti ordini di problemi da affrontare: prevenire la trasmissione verticale dell’infezione e gestire i bambini infetti.
La storia naturale dell'infezione pediatrica, in assenza di trattamento, è caratterizzata da una evoluzione più rapida rispetto all'adulto in circa il 20-30% dei casi, con comparsa molto precoce dei sintomi, che sono presenti nella maggioranza dei pazienti entro i primi 2 anni di vita. Questo spiega la più alta mortalità pediatrica rispetto all'adulto, come dimostrano i dati OMS che evidenziano come a fronte di un 38% di decessi nella popolazione adulta che ha contratto il virus HIV, la mortalità in età pediatrica è del 65%.
Dal 1995 in poi la storia naturale dell'infezione da HIV è stata sensibilmente modificata, anche nei bambini, dall'avvento dei nuovi potenti farmaci antiretrovirali e dalla possibilità di misurare con precisione la quantità di virus presente nel sangue. Si sono cominciati ad utilizzare protocolli terapeutici altamente efficaci che consistono nell'uso contemporaneo di più molecole appartenenti a differenti classi terapeutiche in grado di controllare la replicazione virale dell'HIV, fino a rendere indeterminabile, con le metodiche attualmente disponibili, il numero di virus circolanti (<50 copie/mL). I progressi della terapia hanno quindi rapidamente provocato un cambiamento delle aspettative di vita dei bambini HIV positivi che, oggi stanno diventando adolescenti.
Secondo i dati del Registro Italiano, oltre il 50% dei bambini nati con HIV ha oggi più di 10 anni. Di conseguenza sta cambiando la tipologia dell'assistenza che si allarga dall'intervento strettamente medico al supporto psicologico e sociale.
Uno degli aspetti più complessi dell’attuale gestione della malattia è quello relativo alla comunicazione della diagnosi e all’impatto che tale comunicazione ha in particolare sugli adolescenti. La “verità” a volte è stata omessa per anni, per ipocrisia o per la difficoltà da parte dei genitori di ammettere una propria responsabilità, attendendo che l’evidenza della malattia e della morte “parlassero da sole”. Ma quella morte oggi fortunatamente non arriva più e la comunicazione della diagnosi diventa urgente e obbligatoria. Deve essere attenta e modulata sull’età dei ragazzi, in modo che venga recepita nel modo meno traumatico e allo stesso tempo più corretto e costruttivo.
Non si tratta di un lavoro facile e richiede un intervento multidisciplinare che coinvolge medico, genitori, infermieri, psicologi e volontari: lo scopo è soprattutto quello di evitare atteggiamenti di rifiuto della “verità”, ma piuttosto ottenere dal ragazzo adolescente una consapevolezza responsabile della malattia, tale da garantire un’aderenza ottimale alle terapie (essenziale per evitare lo sviluppo di resistenza da parte del virus e quindi l’efficacia terapeutica) e limitare il rischio di diffusione dell’infezione connesso alle prime esperienze di sessualità attiva.

Insegnare, con l’esempio, a prendersi cura dei bambini con AIDS: un progetto riuscito in Romania

“Quando nel 1995 per la prima volta ci recammo in Romania, chiamati come consulenti infettivologi per un nuovo padiglione d’ospedale a Bucarest, rimanemmo impressionati dalla realtà drammatica che si presentava ai nostri occhi, e che non pensavamo mai di trovare in un paese europeo, a poche centinaia di chilometri dall’Italia: migliaia di bambini sieroposivivi per HIV, malati, sporchi e denutriti affollavano ospedali e orfanotrofi, spesso ospitati in reparti sotterranei o con le sbarre alle finestre, totalmente abbandonati a se stessi.
Ma quel che più ci colpì era l’atteggiamento dei sanitari: l’impossibilità di fare qualcosa, l’assenza di medicine e di mezzi, l’enormità dell’epidemia, li aveva negli anni indotti ad una cupa rassegnazione, ad un atteggiamento di distacco, ad un cinismo difensivo che impediva loro qualsiasi contatto con questi bambini. Medici e infermieri ci sembrarono disumani” ha raccontato il Dott. Castelli.
Il progetto dell’Ospedale Bambino Gesù, in collaborazione con l’associazione di volontariato internazionale AVSI, partì subito, e durò 6 anni. Ponemmo come obiettivo principale il cambiamento della cultura dell’accudimento, senza il quale eravamo certi che tutto sarebbe stato vano. Furono studiati, accanto al supporto medico e di mezzi, una serie di interventi mirati a ricostruire nel personale una nuova motivazione professionale e umana. Non è stato né facile né breve, ma ci siamo riusciti. Sono stati attivati rapporti con le Istituzioni governative e le ONG locali e realizzati corsi di formazione sul posto e in Ospedale a Roma; sono state compiute una serie di missioni sanitarie nei principali ospedali della Romania, dove sono stati realizzati interventi medici e chirurgici (in particolare dermatologici), insegnando le modalità e le tecniche al personale rumeno, rassicurandoli sull’assenza di rischi, forzando la loro motivazione con il nostro esempio.
Formando così a poco a poco nuovi formatori, nell’arco di alcuni anni la terapia dell’AIDS e delle sue complicanze è diventata routine per il personale sanitario rumeno, grazie anche alla nuova disponibilità di farmaci.
Oggi si può dire che l’AIDS pediatrico in Romania è sotto controllo, ma non si può purtroppo affermare lo stesso per altri paesi del mondo, in particolare per l’Africa, dove ogni giorno migliaia di bambini si infettano e muoiono per l’AIDS. Per questo l’Ospedale Bambino Gesù ha in cantiere alcuni progetti per l’Africa, per la cura dei bambini malati ma anche per la prevenzione della trasmissione dell’AIDS da madre a bambino, attraverso terapie mediche e studi sul vaccino, sia nella fase del parto che in quella, più complessa, dell’allattamento.

“Ionela ci è rimasta nel cuore”: Testimonianza di una bambina rumena

“Ionela aveva 7 anni quando dalla Romania la portammo a Roma, all’Ospedale Bambino Gesù, per curarla. In aereo aveva tanta paura, ma era il suo aspetto a far paura agli altri passeggeri, tanto che dovemmo metterle una maschera: Ionela aveva il viso deturpato dal mollusco contagioso, una serie di enormi cisti purulente le ricoprivano tutta la pelle, confondendo bocca, naso occhi…si percepiva solo lo sguardo, tremendamente triste e spaventato. Abbandonata dalla madre, a quattro anni di età, viveva in orfanotrofio dove si era contagiata con l’AIDS e non era mai stata curata. Senza capelli, denutrita e malata, per il suo aspetto impressionante era costretta a vivere in isolamento, e nessuno più si curava di lei.
Abbiamo ottenuto la tutela temporanea per portarla a Roma, dove è stata per 6 mesi, tra l’Ospedale e una famiglia che l’ha ospitata, sottoposta a molti interventi di chirurgia plastica e curata per l’AIDS. Tutto l’Ospedale è sceso a salutarla quando Ionela ha voluto tornare nella sua Romania. Ora è lì, felice; quando l’andiamo a trovare si sforza di parlare in italiano per noi. E’una bella ragazza di 16 anni, capelli lunghi e neri, un viso luminoso. Studia e impara un lavoro insieme alle sue compagne dell’Orfanatrofio. Fa mille progetti per quando sarà fuori, perché si sente bene e piena di energia, grazie alle buone cure che riceve per l’AIDS.”
(AP/CG) (3/4/2004 Agenzia Fides)


Condividi: