AFRICA/SIERRA LEONE - “La sfida più importante è recuperare l’identità dei bambini costretti a combattere e a uccidere” dice un missionario impegnato nell’aiuto ai bambini soldato della Sierra Leone.

sabato, 27 marzo 2004

Freetown (Agenzia Fides)- “La sfida più importante che dobbiamo affrontare è quella di recuperare l’identità dei bambini e dei ragazzi” dice all’Agenzia Fides p. Giuseppe Berton, missionario Saveriano che opera in Sierra Leone ed ha una vasta esperienza nel recupero dei bambini arruolati a forza per combattere nella guerra civile sierraleonese, scoppiata nel 1991 e durata, a fasi alterne, fino al gennaio 2002. Il conflitto, che ha provocato 200mila morti, è stato caratterizzato da atrocità commesse su vasta scala contro la popolazione civile: rapimenti, amputazioni, stupri, arruolamenti forzati di bambini soldato. Il gruppo di guerriglia del Fronte Rivoluzionario Unito (RUF) è stato accusato della maggior parte di questi crimini, che sono ora all’esame di un apposito tribunale istituito dalle Nazioni Unite. Secondo dati delle Nazioni Unite, in Sierra Leone, dal maggio 2001 al gennaio 2002 sono stati smobilitati 6.845 bambini soldato che avevano combattuto sia nelle file dei ribelli sia in quelle governative.
“Ora che il processo di disarmo dei bambini soldato è stato completato, è iniziata la difficile fase del loro reinserimento nella vita civile”dice p. Berton. “Sono ancora bambini, perché hanno saltato alcune tappe della loro evoluzione psicologica, ma hanno anche vissuto già esperienze terribili nel corso della guerra civile. Avendo partecipato alle violenze che hanno sconvolto il paese, inoltre, la popolazione civile non sempre riesce ad accettarli ed aiutarli a ritrovare un’esistenza normale”.
Secondo p. Berton, “questi ragazzi devono poi adattarsi alla vita civile, compito non facile perché molti di loro sono stati strappati alle famiglie in tenera età ed hanno conosciuto solo la guerra. Diversi ragazzi non hanno più una famiglia ed una casa dove vivere”. “Questo comporta un disadattamento psicologico profondo” prosegue p. Berton. “In città una persona è definita da una serie di dati: indirizzo, lavoro, ecc.. Questi ragazzi non hanno nulla di tutto ciò. Uno dei nostri compiti è quindi quello di dare loro una casa, una famiglia, in modo da far ritrovare un’identità sociale a questi ragazzi, un ambiente nel quale riconoscersi e nel quale identificarsi”.
“Questi problemi riguardano i ragazzi più grandi, alcuni dei quali si trovano sulla soglia dell’età adulta, senza avere però un’istruzione ed un lavoro. Abbiamo promosso dunque dei programmi di alfabetizzazione e scuole tecniche per permettere ai ragazzi di ottenere un’istruzione professionale.”
“I bambini più piccoli, invece, vanno a scuola e forse per loro è più facile riadattarsi alla vita civile perché riprendono un percorso interrotto con la forza” dice p. Berton, che aggiunge: “Purtroppo non sempre è possibile aiutare tutti, e alcuni ragazzi cadono nel girone infernale della droga, che rappresenta un problema, comunque meno drammatico rispetto alla mancanza di lavoro”.
La guerra ha quindi lasciato ferite profonde nel paese, però i ragazzi che si sono combattuti non portano odio nel loro cuore. Racconta il missionario: “Quando si incontrano e ricordano i drammatici giorni della guerra, spesso ridono. Uno dice: in quel giorno stavo attaccando quel villaggio e tu dov’eri?. L’altro risponde: io ero dall’altra parte e stavo scappando da te, e tutto finisce in una risata generale”.
In Africa i bambini soldato sono ancora presenti nelle fazioni che si combattono in Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Liberia, Somalia, Sudan e Uganda. (L.M.) (Agenzia Fides 27/3/2004, righe 46 parole 564)


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