EUROPA/ITALIA - RACCONTARE PER CERCARE DI SCUOTERE L'INDIFFERENZA: IL RUOLO DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE PER LA PACE ANALIZZATO AL SEMINARIO DI STUDIO SU «GIORNALISMO E CONFLITTI»

sabato, 22 novembre 2003

Roma (Agenzio Fides) - I mezzi di comunicazione non devono istigare allo scontro e alla violenza, sebbene esistano conflitti che devono essere conosciuti, e di fronte ai quali il silenzio sarebbe una forma di complicità. Questa consapevolezza è stata alla base delle
discussioni della giornata di studio su "Giornalismo e conflitti" che si è svolta ieri nella Pontificia Università della Santa Croce a Roma.
Nell'incontro, che ha visto la partecipazione di inviati di guerra di diverse testate, esperti della comunicazione e docenti universitari, si è messo in evidenza che "se la pace è conseguenza della giustizia, il giornalista contribuisce alla pace nella misura in cui la sua informazione e' giusta". Ma raggiungere questo obiettivo è difficile, giacché l'informazione giornalistica sui conflitti è sottoposta molto spesso a pressioni esterne, normalmente non così "pesanti" in altre aree. Durante la giornata si è parlato di alcuni di questi condizionamenti: gli attori dei conflitti hanno interessi ben precisi da difendere, e fanno di tutto per orientare a proprio vantaggio il discorso informativo; l'opinione pubblica svolge un ruolo sia di "vittima" che di arbitro; l'accesso alle fonti riesce difficile e gli stessi giornalisti e media si sentono inclinati a prendere posizione. Inoltre, in alcuni casi, come per esempio il terrorismo, le parti in gioco cercano deliberatamente di farsi pubblicità attraverso i media.
Davanti a situazioni di conflitto, tocca al giornalista - o alla testata nel suo insieme - valutare la situazione con un criterio professionale e documentarsi sui fatti, sul peso delle ragioni in gioco, sulle motivazioni, gli antecedenti e le possibili conseguenze. Il giornalista cercherà di rendere conto dello stato delle cose con equanimità. Con questo atteggiamento, si eviteranno due estremismi: "conflittualizzare" i contenuti per incrementarne artificialmente l'interesse giornalistico, e - dal lato opposto - sorvolare su certi
conflitti che meriterebbero di essere conosciuti.
"Equanimità - ha sottolineato il professor Diego Contreras, della Facoltà di Comunicazione dell'Università della Santa Croce – vuole dire agire con senso di giustizia; non è sinonimo di neutralità, espressione questa che potrebbe essere anche equivoca. Di fronte agli abusi sui diritti umani, per esempio, non si può essere neutrali".
Intervenendo nella tavola rotonda "Corrispondenti di guerra: raccontare per cambiare le cose", inviati e reporter si sono interrogati sulla possibilità di un giornalismo che faccia della verità e della giustizia i suoi principali strumenti di lavoro. Secondo Toni Capuozzo, del Tg5, pur essendo molto difficile riuscire a cambiare in positivo la realtà delle cose, i corrispondenti di guerra devono cercare con il proprio lavoro di "scuotere l'indifferenza" degli spettatori. "Lo spiraglio che intravedo affinché qualcosa possa cambiare - ha affermato Capuozzo - sta tutto nella conduzione del racconto della propria verità dei fatti,
rispettando la dignità dei protagonisti e delle persone a cui ci si rivolge".
"E' molto difficile che la situazione cambi - ha dichiarato Elisabetta Piqué, corrispondente de La Nación (Argentina) -; basta guardare alla guerra in Afghanistan subito dimenticata appena terminata". Sono intervenuti anche il free-lance Giorgio Fornoni, che ha presentato a titolo esemplificativo un'inchiesta sulla situazione in Cecenia (ex Unione Sovietica), e Ferdinando Pellegrino, del Giornale Rai Radio, il quale ha invitato i corrispondenti di guerra a "fare tesoro" della realtà più vicina a noi per saper "raccontare meglio quella che sta fuori". Inoltre, di fronte all'attuale panorama internazionale, ha ricordato che il vero "rivoluzionario" della pace nel mondo, "ma non in un senso politico, è stato Giovanni Paolo II".
E' stata seguita molto attentamente la testimonianza di Felio Vilarrubias (Univ. Autonoma de Barcelona) sul reporter dell'AP-TV, Miguel Gil, ucciso in Sierra Leone nel 2000. "Miguel aveva fatto della verità la sua arma migliore e la considerava l'unica strada
>verso la pace e la giustizia. Non rimaneva estraneo a ciò che riprendeva - ha raccontato il relatore - e si dichiarava corrispondente di guerra a contatto con l'uomo che soffre; non a caso cercava di essere sempre l'ultimo per farsi carico della sofferenza umana ovunque essa si esprimesse". Vilarrubias ha illustrato con numerosi esempi come Miguel riusciva a rendere compatibile il mettere in primo piano l'essere umano e, immediatamente dopo, le immagini che girava. Infatti, Miguel Gil, ucciso a solo 32 anni, è stato definito da Christiane Amanpour (CNN) come uno dei reporter più intelligenti della sua generazione. Nella sua breve carriera, il reporter della AP-TV è stato insignito, tra gli altri riconoscimenti, del "Rory Peck" (1999) e del "Royal Television Society" (2000).
Dal canto suo, padre Piero Gheddo del PIME (Pontificio Istituto Missione Estere) ha presentato, sulla scorta di esperienze vissute in prima persona, una tipologia di conflitti "dimenticati", su molti dei quali "esiste addirittura una mancanza d'informazione all'interno degli stessi Paesi interessati". Sono situazioni che "non rappresentano un piatto appetibile per il mondo occidentale".Tuttavia, padre Gheddo si è detto convinto che "i media contano molto per costruire la pace, atteso che nessun popolo vuole mai la guerra".
La giornata di studio ha proposto una lettura in termini concreti, attinenti l'attività giornalistica, del Messaggio di Giovanni Paolo II per la XXXVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni: 'I mezzi di comunicazione sociale al servizio di un'autentica pace alla luce
>della Pacem in terris'. Una sessione del convegno, infatti, è stata espressamente dedicata ad "Una lettura della Pacem in Terris alla luce dell'attività giornalistica".
(S.L.) (Agenzia Fides 22/11/2003 – Righe 68; Parole 865)


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