Omelia di Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Ivan Dias alla celebrazione Eucaristica di inaugurazione dell’anno accademico 2007/2008 della Pontificia Università Urbaniana

lunedì, 8 ottobre 2007

Romani 12,9-21 ; Luca 10,25-37

Cari fratelli e sorelle, con gioia iniziamo l’anno accademico dell’Università Urbaniana stringendoci attorno alla mensa del Signore, lui che è l’unico vero maestro e Signore della nostra vita. Veniamo da tanti paesi, che rappresentano mondi e culture diverse. Tuttavia siamo parte di un’unica famiglia senza confini, in cui quanto ci potrebbe separare si compone nella comunione con il Signore e nell’ascolto fedele della sua parola. Molti di voi portano forse con sé le ferite dei vostri popoli, quelle della guerra, delle malattie, di condizioni materiali difficili, talvolta persino della persecuzione. Non siamo qui per dimenticare o per fuggire da situazioni complicate, bensì per prepararci a tornare nei nostri paesi e nelle situazioni da cui veniamo come missionari, uomini e donne colti e santi che non vivono per se stessi, ma per il Signore che è morto e risorto per noi.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a comprendere il senso della vita cristiana ed anche del nostro essere qui. Quel dottore della legge aveva una domanda vera: come ereditare la vita eterna? Conosceva i comandamenti, come Gesù stesso riconosce, e si sentiva giusto, sicuro del suo amore per Dio, ma era ancora incerto su quello per il prossimo, come rivela la domanda rivolta al Signore: “Chi è il mio prossimo?” Forse siamo troppo sicuri anche noi del nostro amore. Infatti, siamo qui proprio perché vogliamo seguire il Signore. Eppure la risposta di Gesù ci interroga nel profondo in un mondo di uomini e donne che sono più simili al sacerdote e al levita che al samaritano, Il Vangelo non si sofferma a descrivere quell’uomo assalito dai briganti. Non dice se era ricco o povero, buono o cattivo, intelligente o ignorante. Era uno come tanti, come quelli che incontriamo o abbiamo incontrato anche noi nella nostra vita o per le strade di questa città.
Viene sorpreso su una strada deserta, derubato, picchiato a morte e lasciato lì. Passa un sacerdote, poi un levita, infine un samaritano. I primi due hanno fretta, devono correre al tempio, sono uomini religiosi, non hanno tempo da perdere con quel poveraccio. Poi passa un samaritano, uno che non c’entrava niente con quell’uomo. Se quel poveraccio era uno della Giudea, la distanza tra i due era accentuata dall’inimicizia esistente tra giudei e samaritani. Eppure proprio un estraneo si ferma. Perché? Quale è la differenza tra i primi due e il samaritano? Tutti e tre camminano sulla stessa strada e vedono quell’uomo. I primi due passano oltre, mentre il terzo, quando lo vede, ne ha compassione e si ferma. Cari fratelli e sorelle, la compassione fa la differenza, perché essa avvicina, colma le distanze, sconfigge la paura e i pregiudizi, insegna a prendersi cura di chi giace nel bisogno. Nei Vangeli sinottici la compassione è un sentimento tipico di Gesù. Per questo i Padri della Chiesa videro nel Buon Samaritano il Signore stesso, che si piega sulle ferite dell’umanità come guaritore e salvatore.
Il Vangelo ci interroga in un mondo in cui la distanza con i poveri è diventata un abisso, in cui la paura porta al fastidio, al disprezzo e persino alla violenza nei loro confronti. La compassione è il tratto distintivo del cristiano. Essa avvicina e insegna a compiere quei gesti semplici e concreti di solidarietà. La compassione è la via all’amore per il prossimo, che, come abbiamo visto nella parabola, passa attraverso la cura di quel poveraccio. È significativo che la domanda finale del Signore al dottore della legge ribalta quella iniziale, Il dottore della legge aveva chiesto chi fosse il suo prossimo. Gesù risponde: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” Per conoscere il prossimo bisogna farsi prossimi degli altri, a cominciare da coloro che si trovano nel bisogno. Il discepolo è colui che si fa prossimo alle ferite dei bisognosi, che non ha paura di vivere nella compassione e obbedisce all’invito di Gesù, senza i distinguo del mondo in cui viviamo: “Va, e anche tu fa lo stesso”.
Ci si potrebbe chiedere che c’entra questo brano evangelico con il nostro essere qui in una istituzione accademica, che ci chiede innanzitutto di essere bravi docenti e ottimi studenti.
Cari amici, senza l’amore per gli altri, soprattutto per i poveri, ogni scienza è inutile. Se non viviamo per il Signore e per gli altri, il nostro è tempo perso. L’apostolo Paolo, uomo di grande cultura e non certo di poca fede, in quel bel brano della lettera ai Romani, dopo averci istruiti sul senso e sulla novità della salvezza in Cristo, esorta a una vita nella carità, e termina le sue parole con quell’invito emblematico: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. Queste parole contengono una grande sapienza, che ci aiuta a riscoprire la forza e la straordinarietà della vita cristiana, ci rafforza nella necessità di entrare con lo studio nella conoscenza dei misteri divini per condurre la nostra battaglia per il bene con l’intelligenza di una ragione nutrita dalla fede e dalla carità. Siamo in un mondo dove tutto sembra diventare provvisorio, persino le scelte di vita, in cui tutto viene messo in discussione e l’uomo si sente padrone assoluto della vita e della morte. Perciò, rimaniamo ancorati al Signore, rafforziamo la nostra conoscenza di lui, amiamolo come egli ci ha amati, amiamo tuffi senza distinzione, per diventare annunciatori instancabili del Vangelo. Diventiamo missionari dell’amare di Dio, donne e uomini saggi e santi al servizio di Dio e dell’umanità. Che la Vergine Maria, Madre di Dio, ci aiuti ad accogliere con obbedienza la voce del Figlio, perché anche noi cresciamo in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini!

Ivan Dias


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